Il clima e la Siria

Wed, 02/12/2015 - 09:49
di
Piero Maestri

Sul numero di Pagina99 in edicola in questi giorni è pubblicato un interessante articolo sulle relazioni tra cambiamento climatico e migrazioni («La grande fuga dal caos climatico», Federico Gennari Santori).
In questo articolo c'è un passaggio sulla situazione siriana su cui vorremmo esprimere alcune considerazioni, senza voler polemizzare con il complesso dell'articolo stesso, del quale quel passaggio non è certo il punto principale.

Scrive Gennari Santori (riprendendo un report di Focsiv/Cespi e Wwf): «l'analisi geopolitica della guerra civile scoppiata nel 2001 trascura il periodo di siccità che l'ha anticipata [...]. Dal 2006 al 2010 la Siria ha visto crollare la produzione agricola. Il taglio del prezzo agevolato dei combustibili nel 2008 ha fatto il resto: in una notte il valore della benzina triplicò, facendo schizzare i prezzi dei principali generi alimentari [...]. Due anni dopo, aumentato ulteriormente per la carenza dei raccolti, il costo del grano era raddoppiato». E conclude questa parte sostenendo che «molti sunniti sono stati costretti a spostarsi dall'entroterra alla costa, abitata perlopiù da alawiti. Le differenze culturali e la spartizione di risorse idriche scarse avrebbero preparato il terreno allo scontro armato».

Indubbiamente i profondi e duraturi cambiamenti che ha subito il clima come conseguenza del riscaldamento globale influiscono sulle condizioni di vita di tutte e tutti e provocano stravolgimenti ambientali che portano a reazioni sociali inedite.
Ma leggere quanto avvenuto in Siria come una conseguenza del cambiamento climatico (analisi che in questi giorni circola ampiamente, ripresa persino da quel fine analista geopolitico del principe Carlo d'Inghilterra...) rischia di mettere in ombra fattori chiave negli eventi che dal 2011 si susseguono in Siria.

Intanto va messo in chiaro un concetto che a noi sembra ormai evidente - ci rifacciamo in questo ai lavori di Daniel Tanuro: il riscaldamento globale e il conseguente cambiamento climatico, per quanto siano processi fisici ineludibili del nostro pianeta, non sono genericamente il risultato dell'«opera dell'uomo», quanto dei rapporti economici dominanti e della dinamica storica del capitalismo a livello mondiale, in particolare per lo sfruttamento intensivo delle risorse del pianeta e l'utilizzo senza precedenti di combustibili che provocano l'aumento di CO2 nell'atmosfera. Sfruttamento e consumo necessari al profitto e alla sua massimizzazione, perché non c'è capitalismo senza crescita.
Sottolineiamo questo perché va compreso l'elemento soggettivo e politico in un fenomeno che va oltre il suo aspetto «naturale».

Per quanto riguarda la vicenda siriana, questa lettura rischia di nascondere o cancellare l'elemento soggettivo, appunto, quello delle responsabilità politiche del regime e delle scelte delle siriane e dei siriani che hanno voluto ribellarsi.

In primo luogo se si parla del «taglio del prezzo agevolato dei combustibili» bisogna anche dire che questa è stata una scelta politica richiesta dal FMI e immediatamente messa in pratica dal regime famigliare di Bashar el Assad - ottimo allievo (e per questo premiato) degli apostoli del Capitale. Una scelta che non casualmente si è accompagnata ad un processo di liberalizzazione economica e di privatizzazioni che hanno favorito proprio settori della stessa famiglia di Assad o comunque dei dirigenti del regime (si veda Joseph Daher).
Allo stesso modo si deve guardare all'aumento del prezzo del grano, che è stato certamente un fenomeno mondiale, gestito localmente in maniera da non provocare perdite delle imprese e delle multinazionali, mentre pesanti conseguenze venivano scaricate sulla popolazione (in particolare nelle campagne).

Non è stata la siccità, semplicemente, a causare migrazioni interne, quanto la sua gestione da parte di un regime autoritario, corrotto e oligarchico. Così come è profondamente sbagliato leggere lo scontro interno fin dall'inizio come «etnico» o comunitario, tanto più se non si spiega quale sia stata la politica di divisione settaria costruita dal regime in tutta la sua storia e quanto le linee di frattura si siano prodotte tra settori che erano stati favoriti dal regime e settori che ne erano stati vittima (in maniera trasversale tra le diverse comunità).
Ancora una volta le conseguenze sociali di fenomeni «naturali» non sono neutre e non colpiscono tutte/i allo stesso modo. È la divisione di classe, baby!

In secondo luogo l'analisi della «crisi siriana» come conseguenza del cambiamento climatico mette in ombra le ragioni e la soggettività delle donne e degli uomini che si sono coscientemente e coraggiosamente ribellati al regime di Bashar. Queste donne e questi uomini non sono stati agenti inconsapevoli mossi da fattori esogeni, vittime senza progetto, ma soggetti che hanno deciso di ribellarsi, si sono organizzati per farlo e hanno messo in discussione prima di tutto le scelte politiche del regime, le sue responsabilità nell'immiserimento della popolazione, oltre che nella repressione e nella mancanza di libertà.

Una rivolta, una rivoluzione nasce in un contesto specifico, nel quale le condizioni sociali e politiche, così come le disuguaglianze economiche e la mancanza di partecipazione alle scelte collettive, sono un fattore fondamentale e creano le condizioni per una presa di coscienza. Ma senza l'elemento soggettivo (non necessariamente il «partito rivoluzionario», quanto il protagonismo diretto e l'autorganizzazione sociale), senza la presa di parola di donne e uomini, quella rivolta/rivoluzione non è possibile.
Al netto della pesante repressione e della reazione degli elementi controrivoluzionari, i limiti e le debolezze di quella stessa soggettività rivoluzionaria - in un processo che ha avuto un andamento contraddittorio e sembra oggi avvitarsi in una spirale senza vie d'uscita prevedibili - sono tra i fattori determinanti nella crisi di queste esperienze.