Grande il disordine sotto il cielo...

Tue, 25/02/2014 - 18:52
di
Thomas Müntzer

Le ultime settimane sono state dense di avvenimenti internazionali molto importanti, che mettono in questione la nostra capacità di sguardo sul mondo, le nostre categorie d'analisi e le necessità di pensare/ripensare la solidarietà internazionale.
Ci riferiamo in particolare a quanto accade in diversi paesi - Ucraina, Venezuela, Bosnia, Siria... - dove si sono prodotte rotture a volte di importanza storica e dove si confrontano e si scontrano movimenti di massa, governi corrotti, nazionalismi e gruppi di destra, esperienze di governi progressisti, settori interi della popolazione.
Con questo contributo non pensiamo di esprimere una posizione compiuta e definitiva, quanto condividere una riflessione e una discussione da fare.

Colpo di stato o rivoluzione?
Il crollo verticale del governo ucraino, la crisi delle élite che hanno guidato quel paese negli ultimi anni, il cambio del personale politico al potere non possono essere letti semplicemente come un "colpo di stato", da una parte, o come una "rivoluzione", dall'altra.
La crisi politica in Ucraina è cominciata con la decisione del presidente Yanukovitch, sottoposto a forti pressioni da parte del governo russo, di non firmare l'accordo di libero scambio negoziato con l'Unione Europea, malgrado quello stesso accordo fosse fino ad allora voluto dallo stesso Partito delle Regioni a cui il premier apparteneva.
Questa decisione si sovrapponeva ad un paese attraversato da una forte crisi sociale e a divisioni presenti nella società ucraina e ha dato avvio ad un movimento di protesta ampio e potente contro l'ipotesi di un'integrazione dell'Ucraina in un progetto regionale dominato dalla Russia. Un movimento che non può essere semplicemente letto come "filo UE", ma che al suo interno conteneva molte e diverse aspirazioni, bisogni, illusioni.

Questo movimento ha provocato una forte crisi tra le élite dominanti, e ha diviso lo stesso partito al potere. La risposta voluta da Yanukovitch e dal suo entourage è stata quella della repressione, della criminalizzazione del movimento, del tentativo di delegittimarlo come "fascista". In questo è stato appoggiato anche dal partito comunista, che in parlamento ha sostenuto le leggi repressive.
Questo non ha fermato la protesta - che fino a quel momento aveva già avuto dinamiche di forza, per quanto limitate, in particolare legate alle occupazioni di palazzi pubblici - anzi l'ha resa ancora più violenta. E in questa fase sono cresciuti i settori di estrema destra (su questo vedi gli articoli pubblicati), che conquistano una legittimazione di massa per la loro azione diretta contro le forze di polizia e nell'azione contro il parlamento di metà gennaio.
La fine - per il momento - della storia è quella di una caduta del governo e della fuga del presidente Yanukovich - conseguenza quindi di una doppia dinamica, al momento convergente: da una parte la dinamica delle piazze, di un movimento plurale e ambiguo, determinato e non sempre chiaro nelle sue proposizioni; dall'altra un colpo di mano dall'alto, con un cambio di maggioranza grazie anche alla divisione tra i parlamentari del Partito delle Regioni.

Sulla caratterizzazione del movimento sembra che molti a "sinistra" abbiano idee chiare e definitive: si tratta di un movimento di destra, forse addirittura nazista, legato a circoli occidentali per portare l'Ucraina nella Nato e nelle alleanze politico-economiche occidentali. Insomma, una versione aggiornata della guerra fredda, una sua continuazione dopo qualche decennio in funzione anti-russa.
Ancora una volta la "geopolitica" acceca...
Il movimento dei Maidan non può essere assimilato tout court ad un movimento di destra, sia per le posizioni che ha espresso, sia per la sua composizione plurale, nella quale non sono mancati gruppi di sinistra ed estrema sinistra. Presenze minoritarie, certamente, che hanno dovuto spesso affermare il loro diritto a stare in quelle piazze di fronte ad attacchi dell'estrema destra, ma che hanno provato a pensare ad un'alternativa che non fosse schiacciata dalla scelta tra Russia e UE (su questo si può leggere l'articolo di Buzgalin su questo stesso sito o il manifesto di questi gruppi di sinistra). Sinistra che ha espresso anche interessanti iniziative, in particolare con la presenza di studenti universitari. La scelta di questa sinistra di partecipare a questo movimento è stata la conseguenza di una posizione decisamente all'opposizione del governo Yanukovitch e al tentativo di avere uno spazio e un ruolo nel movimento di massa.
Nemmeno i gruppi di destra possono essere considerati maggioritari, pur con una presenza visibile e pericolosa, che in questi giorni si sta ancora più affermando.
Per il momento la conclusione ha portato ad un rilancio della figura di Julia Timoschenko - altra oligarca pari a Yanukovitch, santificata dal suo arresto e dalla prigionia, e cavallo su cui puntano l'UE e gli Usa per una rapida stabilizzazione del governo in Ucraina. Le prossime settimane e mesi ci diranno quale sarà la reazione della piazza e quali spazi i Maidan potranno avere (se li avranno) nel controllare gli accordi internazionali - sapendo che l'UE stessa non saprà ne vorrà rispondere ai bisogni espressi in quelle piazze, ne democratici ne sociali.

Per noi ancora più importante è un altro aspetto: se e come riuscirà a svilupparsi una sinistra radicale, anticapitalista, indipendente - a partire dalla sua presenza nel movimento. A questa sinistra vogliamo dare il nostro contributo solidale, il nostro sostegno politico e con essa vogliamo aprire una discussione, convinti come loro che non verrà alcuna soluzione dall'UE ma che un processo di relazioni politiche dal basso sia necessario.
Questo nostro auspicio è conseguente ad una riflessione che avanziamo, chiedendoci se in qualche misura quei conflitti e movimenti siano una risposta alla crisi del capitalismo nei paesi che fanno parte di un terzo anello dopo quelli occidentali e quelli cosiddetti emergenti (Brics, Turchia...).
Senza pensare a meccanicismi, forse le aspettative di crescita e benessere annunciate a partire dal 1989 trovano un'ulteriore smentita anche in questa terza fascia geopolitica del capitalismo contemporaneo. Al tempo stesso la natura spuria e contraddittoria di quei movimenti pare essere la risultante dell'eclissi di un'idea condivisa e forte di emancipazione. Sconfitta e tramontata l'esperienza del cosiddetto comunismo reale non pensiamo si possa leggere con sufficienza ciò che si muove utilizzando proprio quell'esperienza come lente d'ingrandimento. La confusione è proprio figlia della sconfitta di quest'ultima.

Venezuela e Ucraina: stessa mano?
In queste stesse settimane il Venezuela, in particolare Caracas, è stato scosso da manifestazioni antigovernative, che hanno provocato diversi morti dopo l'intervento della Guardia Civìl.
Anche in questo caso qualcuno ha fatto un semplice 1+1=2, considerando quello che succede nel paese latinoamericano in analogia a quanto successo a Kiev.
Un'analogia solo apparente per diversi motivi, il primo e più importante dei quali è la differente natura del governo bolivariano rispetto al corrotto e oligarchico governo di Yanukovitch; la seconda è la diretta iniziativa politica antigovernativa della destra del paese sostenuta dagli Usa e da chi vuole riprendere il controllo dei proventi del petrolio.
Non è però sufficiente denunciare le manovre delle destre contro la rivoluzione bolivariana, che minacciano direttamente le conquiste della stessa rivoluzione, ed esprimere la nostra concreta solidarietà all'esperienza bolivariana e alle sue organizzazioni politiche e sociali (solidarietà che manteniamo con chiarezza).
Dobbiamo provare anche a capire cosa rende possibile alle destre venezuelane cavalcare proteste che hanno legami anche con la difficile situazione economica e la povertà ancora presente nel paese. I rischi per il presidente Maduro sono essenzialmente due: il primo è quello di farsi convincere da chi crede (anche all'interno del fronte chavista) di affrontare le reali difficoltà economiche, dovute anche all'iperinflazione, concedendo più spazio ai settori dell'alta borghesia imprenditoriale che provano ad approfittare della situazione acutizzando la crisi tramite serrate ed aumenti sproporzionati dei prezzi, il secondo è quello di negare le reali difficoltà attribuendo tutte le responsabilità agli USA o alla destra filoimperialista.
A rendere difficile la situazione è anche la propaganda dello stesso governo venezuelano sulla Siria, e non solo, che per motivazioni di alleanza con il “nemico del mio nemico”, alimenta l'idea che dietro ogni sollevazione che avviene nel campo degli alleati, ci sia una macchinazione degli Usa, difendendo così regimi reazionari e che nulla hanno a che fare con l'idea di riscatto sociale che il processo bolivariano ha invece come caratteristica. Il Venezuela risente della situazione del “socialismo in un paese solo” che ha bisogno di alleati per poter resistere all'interno del sistema capitalista internazionale. Ma è una contraddizione nel complesso difficilmente risolvibile e riguarda la natura stessa dello stato venezuelano e la sua posizione all'interno del capitalismo internazionale.

Del resto anche dall'interno del processo bolivariano ci sono critiche sulle scelte del governo Maduro, che, come abbiamo detto, ha cercato di trovare una "pacificazione" e un accordo con settori della borghesia che non ha raggiunto gli obiettivi ricercati, mentre rischia di allontanare interi settori sociali dal progetto bolivariano. Non pensiamo che sia la repressione di piazza a sconfiggere questi tentativi delle destre.
Il nostro sostegno alle conquiste del governo progressista e delle organizzazioni sociali bolivariane guarda con speranza all'apertura di una nuova fase di mobilitazione delle lavoratrici e dei lavoratori venezuelani e ad un aperto processo di partecipazione democratica delle popolazioni - partecipazione e mobilitazione che hanno sconfitto i tentativi golpisti già nel 2002. Un sostegno convinto e critico, che guarda con rispetto alle scelte politiche ed economiche del governo bolivariano e con fiducia nella fondamentale esperienza di partecipazione dal basso con forma del potere popolare.

La Siria abbandonata...
Non abbiamo molto da ripetere, pensiamo, rispetto alla vicenda siriana. Ci pare di essere stati sempre chiari sul nostro giudizio in merito.
Per noi in Siria si è aperto dal marzo 2011 un processo rivoluzionario indipendente e popolare - che si richiamava apertamente alle rivolte nei paesi della regione araba (Tunisia, Egitto, Libia, Bahrein, Yemen...) - dal carattere essenzialmente politico e pacifico. La pesante risposta repressiva del regime del clan Assad ha prima colpito direttamente le manifestazioni di protesta - con migliaia di militanti incarcerati e spari sulla folla - per allargare poi la sua politica di criminalizzazione e attacco alle città.
La guerra civile che da quel momento si è scatenata è principalmente responsabilità di queste scelte criminali del governo siriano, a cui hanno fatto eco gli interventi di potenze regionali e globali, che hanno soffiato sul fuoco di questa guerra civile di lungo periodo.
Abbiamo più volte dichiarato il nostro sostegno alle ragioni della rivoluzione e la nostra vicinanza ai gruppi democratici e di sinistra, e ad esperienze di intervento diretto dal basso come l'esperienza dei comitati locali di coordinamento.
Non abbiamo mai considerato reale un intervento diretto degli Usa e dei loro alleati - e quanto successo dallo scorso agosto ancora di più ci convince che se esiste un "complotto internazionale" è quello che si sta giocando sulla pelle delle/dei siriane/i e che ha avuto la sua rappresentazione nel teatro della "comunità internazionale" a Ginevra. I cosiddetti negoziati di pace sono il tentativo di un accordo tra potenze internazionali (Usa e Russia, con Cina, Iran e monarchie arabe sullo sfondo) per congelare il conflitto e stabilizzare un potenziale esplosivo per tutta la regione.
Non siamo contrari a prescindere a negoziati tra avversari anche sul piano militare - anche se per noi è chiara l'asimmetria dei contendenti, e la natura criminale del regime degli Assad. Saranno le/i siriane/i e le loro espressioni politiche (e militari) a decidere quale posizione tenere rispetto a negoziati ed accordi.
Ci spaventa l'insensibilità della gran parte dei settori spesso impegnati nella solidarietà internazionalista - in particolare quelli impegnati nel sostegno al popolo palestinese, che sembrano non accorgersi di quanto avviene ad esempio a Yarmouk (talvolta "giustificando" l'assedio del campo da parte dell'esercito di Assad con la presenza di "armati" all'interno del campo stesso - praticamente la stessa giustificazione utilizzata dal governo israeliano e dai gruppi filo-sionisti nel caso di Gaza e dei campi profughi nei territori occupati). Ci spaventa e ci delude l'incapacità di guardare con gli occhi della popolazione siriana, di uscire dalle logiche della geopolitica e di "campo" (fuori tempo massimo, peraltro); e ci delude il silenzio o la presa di parola tardiva di chi si è definito finora come "pacifista", che non sembra essersi accorto di questi 3 anni di guerra contro il popolo siriano (salvo poi lo scorso agosto fare dichiarazioni "contro la guerra", non dicendoci esattamente se parlavano di quella che non sarebbe avvenuta o di quella reale in corso) o che preferisce evitare di dire qualcosa di fronte ad una situazione effettivamente complicata - ma, purtroppo per le loro anime salve, il mondo è complicato...
Per parte nostra ribadiamo la nostra solidarietà concreta e politica alla rivoluzione siriana, attraverso progetti di solidarietà diretta che diano qualche respiro ad una popolazione colpita ogni giorno dalla guerra e dalla repressione feroce del regime siriano e attraverso la solidarietà e l'iniziativa politica, che in Italia si esprimerà tra l'altro con la manifestazione nazionale del 15 marzo a Roma per la "libertà e autodeterminazione per il popolo siriano, contro il regime di Assad e le bande terroriste che colpiscono la popolazione e i rivoluzionari, per la liberazione dei prigionieri d'opinione e padre Dall'Oglio, in solidarietà con i profughi palestinesi in Siria vittime della repressione di Assad e per una vera protezione umanitaria e accoglienza per tutti i profughi siriani e per tutti gli immigrati" (dall'appello di convocazione).

La speranza bosniaca
Una speranza di una rivolta positiva e apertamente progressista in senso politico e sociale viene da un paese pesantemente colpito da una guerra che ne ha distrutto territorio, relazioni sociali e culturali, prospettive di politica indipendente per lunghi anni. Parliamo della Bosnia.
In questo paese frammentato dalla guerra "etnica" e dalla pace di Dayton che ha riconosciuto i confini di questa vergogna (anche per la cosiddetta comunità internazionale), sottoposto ad una sorta di protettorato da parte dell'Unione Europea, si sono sviluppati movimenti sociali e politici di massa che stanno cambiando il panorama che appariva (almeno ad uno sguardo disattento, come quello che anche noi troppo spesso abbiamo su paesi che non conosciamo) bloccato o destinato al ruolo di semplice vittima delle politiche neoliberiste imposte da Fmi e UE.
Il movimento che è cresciuto in Bosnia - a partire dalla mobilitazione dei lavoratori di fabbriche privatizzate e poi chiuse a Tuzla - ha a nostro parere due caratteristiche che lo rendono particolarmente interessante e importante - oltre che una fonte di insegnamento per chi crede che la vecchia talpa continui a scavare (magari in territori che noi consideriamo già "persi").
La prima caratteristica osiamo definirla "di classe": tra le rivendicazioni che sono state sollevate nelle diverse dichiarazioni dei gruppi che manifestano nelle varie città al primo posto ci sono richieste di restituzione delle fabbriche ai lavoratori, di controllo pubblico delle stesse, di autogestione, di legame tra i compensi ai funzionari pubblici e alle cariche elettive e i salari operai. Rivendicazioni di classe che si generalizzano a livello sociale e che pongono la questione della partecipazione, dell'autogoverno dell'economia e del paese.
La seconda caratteristica è quella della pratica della "democrazia reale", come la chiamerebbero i movimenti indignad@s. Nelle varie città bosniache sono nati i Plenum, forme assembleari dove cittadine/i e lavoratrici/lavoratori elaborano le loro piattaforme e le loro rivendicazione, accompagnate da una totale sfiducia verso tutti i partiti istituzionali, ritenuti responsabili della crisi economica, politica e sociale.
Queste caratteristiche rendono la rivolta bosniaca un importante esperienza di rottura con l'idea che "there is no alternative" e di elaborazione di nuove forme di partecipazione e mobilitazione di massa.
Non salutiamo in maniera sciocca l'ennesima rivoluzione fatta da altre/i al posto nostro, ma ci poniamo con curiosità, passione, solidarietà al fianco di un'esperienza viva e che da respiro a noi tutte/i.