Egitto: al di là delle urne

Sat, 15/02/2014 - 16:27
di
@costantino84

Il 14 e il 15 gennaio gli egiziani sono chiamati ad approvare la nuova costituzione redatta dai generali e loro alleati dopo la deposizione del presidente Morsi, il massacro di Rabaa e l’istaurazione di un regime militare. Per l’ennesima volta in due anni le forze controrivoluzionarie utilizzano i seggi per soffocare la rabbia esplosa nel gennaio del 2011 nelle strade e nelle piazze d’Egitto.

Parlare d’Egitto alla vigilia della certa approvazione della nuova costituzione che di fatto pone il Paese sotto il controllo e il governo dei militari e del Ministero degli Interni, significa parlare di controrivoluzione, di sangue innocente, di carceri piene, di soprusi e posti di blocco, di collusioni e tanto tanto silenzio. Dopo il 30 giugno e, soprattutto, dopo il disumano massacro di Rabaa è come se la gente avesse consapevolmente deciso di mettere da parte quella dignità (karama) che era stata – prima ancora degli slogan ‘ish, horriya, ‘adala ijtima’iyya – il motivo per cui si era scesi in piazza il 25 gennaio e poi ininterrottamente per due anni fino alla deposizione del presidente Morsi. Quella dignità che aveva portato l’Egitto ad essere nel 2012 il paese con più scioperi, proteste e manifestazioni del mondo.
Militari, polizia, stampa e vecchi sostenitori del regime hanno potuto creare un blocco sociale che di fatto non solo ha compiuto quello che aveva fallito nel 2011, ossia dividere e lacerare il paese, ma è riuscito a riporre gli egiziani in una sorta di gabbia (non solo retorica) per cui non si ha più voglia di contestare, di alzare la testa, di scendere nelle strade e, dunque, di protestare. Una gabbia costruita sul terrore della guerra al terrorismo da cui è sempre più difficile uscire.
Questo naturalmente non vuol dire che non esistano delle forme di resistenza al regime controrivoluzionario e fascista che è andato via via istaurandosi, ma che l’egemonia del dissenso (in tutte le sue componenti) ha lasciato il posto a una più generale remissività, quando non direttamente ad approvazione e sostegno attivo. Le centinaia di migliaia di donne e uomini che per mesi fino al giugno 2012 avevano riempito le strade e le piazze d’Egitto si sono rifugiate all’interno delle loro vite private, delle mura domestiche, del ristretto gruppo di amici evitando, sempre più come ai tempi di Mubarak, di prendere pubblicamente posizione. E’ il momento dei sostenitori del vecchio regime, ritornati sulla scena con la solita tracotanza e prepotenza (che la tv elogia con apposito spot sui filool) dopo che una rivoluzione dai modi e dai toni del tutto pacifici, sarebbe ora di ricordarlo in maniera più convinta, li aveva risparmiati dalla sorte che avrebbero invece meritato.
D’altro canto l’opposizione, almeno quella che si rifà ai falliti e poi finiti Fratelli Musulmani, persevera con degli slogan che la gente stenta giustamente a condividere perché anchilosati su principi (discutibili a priori come quello sulla legittimità elettorale) che non possono essere rivendicati da chi fino a qualche mese fa “era il regime” e non evitava di stringere patti con vari diavoli torturando, arrestando, utilizzando milizie, sorridendo agli assassini, tutelando gli interessi economici dei predatori nazionali ed esteri ecc. ecc. I Fratelli Musulmani fin dal marzo 2011 sono parte integrante del processo controrivoluzionario (che in assoluta malafede contavano di poter cavalcare) e solo la loro ottusità politica e ideologica (basti guardare cosa hanno fatto i loro amici “timorati di Dio” salafiti) gli ha impedito di vedere fino a che punto il male li stava inesorabilmente divorando dall’interno. Le radici del loro pensiero odierno affondano nella disperazione di chi è stato, prima ancora che oppresso e represso, depodestato e sconfitto politicamente e socialmente (per questo l’appello al boicottaggio del referendum è ancora più ridicolo).
Certo ora che le piazze sono piene di manifesti per un “si” obbligato, che i poster del nuovo eroe nazionale in occhiali scuri hanno inondato persino le fiere dei mowlid d’Egitto, che i poliziotti che il 28 gennaio erano con le brache in mano sono salutati e riveriti ad ogni posto di blocco, che la sicurezza interna delle università è armata di fucili, che si finisce in carcere per quattro dita disegnate su un righello, è facile dire che tutto era prevedibile o addirittura previsto.
Invece non è così. Alla vigilia del 30 giugno, quando i carrarmati erano già pronti e quando vecchi e nuovi filool avevano ornato di bandiere il paese, non restava nient’altro da fare che scendere di nuovo per riconquistare quel potere che il gioco elettorale aveva tentato senza riuscirci di imbavagliare. Perché una cosa non si dice mai, specie nella nostra Europa democratica delle leggi anti/protesta: la controrivoluzione in Egitto ha la forma del seggio elettorale. Quello del marzo 2011 in primis e poi via via fino a questo referendum. Riflettiamo pure su quanto sarebbe stato - e su quanto sia necessario al paese - un governo rivoluzionario di unità nazionale che, guarda caso, non si è mai trovato il modo di costituire.
Nessuno possiede la sfera di cristallo per poter leggere il futuro. Se c’è una cosa che la rivoluzione egiziana ha dimostrato (e confermato) è di saper prendere quelle strade inaspettate e insperate che nessun profeta e demagogo può comprendere perché inerenti alla Storia stessa. La gabbia che il nuovo fascismo sta costruendo può essere aperta nonostante il sangue, gli arresti e la repressione. Gli studenti, ossia quei giovani esaltati dalla stampa occidentale e presto dimenticati, sono riusciti nonostante le differenze a far fronte comune quando si tratta di rivendicare i loro diritti e la scarcerazione dei loro compagni detenuti. Gli operai continuano a scioperare in tutto il Paese. Non è affatto sicuro che la popolazione alla lunga non si stanchi di nuovo per i soprusi che deve subire, dei lutti che giorno per giorno affliggono le famiglie e soprattutto delle condizioni economiche che riempiono di poveri i marciapiedi dei quartieri più periferici e popolari.
Le richieste del 25 gennaio sono ancora lì, la(e) piazza(e) pure: dignità, pane, libertà e giustizia sociale. Su questo si può trovare l’accordo. Non è dato sapere quando, non è dato sapere come.
Althawra mustamirra, speriamo solo di esserci.