Bolivar non basta più!

Thu, 13/02/2014 - 11:52
di
Dario Di Nepi

Con questo articolo vorremmo aprire un ragionamento e un approfondimento sulla situazione dell'America Latina e in particolare dei paesi che stanno vivendo le "rivoluzioni bolivariane". Ci vorremmo chiedere infatti: perché questi governi non stanno lasciando dopo di sé situazioni consolidate? Perché sono in gran parte esperienze prettamente elettorali? Che ruolo hanno attualmente i movimenti che li hanno portati al governo?
Proveremo a rispondere a queste e ad altre domande pubblicando articoli e traduzioni su queste tematiche, cercando di innescare un dibattito che in Italia è troppo spesso polarizzato unicamente tra chi condanna e chi esalta unilateralmente queste esperienze.

Sono ormai passati 15 anni dalla prima elezione di Hugo Chavez in Venezuela nel lontano 1998. Da quel momento possiamo dire che più o meno tutta l’America del Sud è stata ripetutamente scossa da movimenti che hanno saputo resistere e a volte ribaltare l’offensiva neo liberista che aveva devastato il continente negli anni 80-90. In alcuni Paesi i movimenti sociali e indigeni hanno saputo anche influenzare in maniera determinata le coalizioni bolivariane che sono andate al governo come nel caso di Bolivia, Ecuador e Venezuela; in altri hanno subito un processo di normalizzazione e a volte di isolamento da parte di governi più o meno “progressisti” come quello dei Kirchner in Argentina, di Tabarè Vazuquez e Pepe Mujica un Uruguay, di Lugo in Paraguay. Solo Cile, Colombia e Perù non hanno vissuto in questi anni una messa in discussione radicale delle politiche neoliberiste anche se il primo Paese è comunque stato teatro di uno dei più grandi movimenti studenteschi dell’America Latina.
Oggi, nel 2013, siamo in un momento decisivo per il futuro del continente e di tutti i tentativi di cambiamento che abbiamo fin qui brevemente descritto. Il momento è topico per diverse ragioni, sia politiche che economiche. A partire da quest’anno è all’ordine del giorno la questione delle “successioni” dei leader che hanno incarnato tutto questo contradittorio processo di cambiamento: il Venezuela lo sta già sperimentando con la morte di Chavez e l’elezione di Maduro. L’Argentina, la Bolivia e l’Ecuador tra il 2014 e il 2015 affronteranno nuove elezioni e Cristina Kirchner, come Morales in Bolivia a meno di cambiamenti costituzionali, non potrà ricandidarsi alla presidenza dell’Argentina (il Brasile non possiamo considerarlo all’interno di questo elenco, sin dalla presidenza Lula ha infatti di fatto abbracciato molte politiche neoliberiste). Il dato negativo purtroppo è che proprio la questione delle “successioni” sta mettendo in discussione il processo di cambiamento stesso, sia nei Paesi “bolivariani” che in quelli con governi più moderati.
Per comprendere meglio vediamo cosa sta avvenendo in una Paese emblematico come il Venezuela all’indomani della morte di Chavez.
Il governo Maduro in Venezuela sta affrontando un momento molto complicato, l’inflazione è arrivata infatti al 49% e in molti negozi cominciano a scarseggiare i beni di prima necessità. Intendiamoci il Venezuela è un Paese che nei due governi precedenti a Chavez soffriva di un’inflazione cronica che arrivava al 50% annuo e che Chavez riuscì a ridurre a un tasso annuale del 22% dal 1999 al 2012. Il dato è che con la morte del “comandante” la borghesia nazionale ha di fatto cominciato la sua controffensiva, riempiendo spesso i propri magazzini di beni primari come farina e carta igienica evitando di venderla ai negozi per screditare il governo agli occhi della popolazione. I settori popolari sono ancora fiduciosi nel processo bolivariano, ma l’inflazione, la scarsità di prodotti essenziali e l’aumento vertiginoso del mercato nero stanno intaccando la fiducia nel PSUV (Partido Socialista Unificado de Venezuela). Le responsabilità però non si possono solo additare verso una borghesia “cattiva e antipopolare”, gli elementi in questione infatti ci dicono essenzialmente tre cose: il PSUV sta subendo da anni un processo di burocratizzazione e corruzione che Chavez non ha voluto frenare, allontanandosi di fatto dai settori popolari; le misure (come le famose misiones) a favore delle classi più povere spesso non sono riuscite ad andare al di là dell’assistenzialismo producendo effetti negativi sulla partecipazione politica; infine lo sviluppo del Venezuela si è basato essenzialmente sulla congiuntura favorevole di un aumento dei prezzi del petrolio, questo ha permesso una parziale redistribuzione della ricchezza, ma Chavez stesso non è riuscito a rinvestire i profitti petroliferi per rafforzare altri settori essenziali per un'economia che vorrebbe smarcarsi dal capitalismo; in particolare il settore agricolo è stato abbandonato a sé stesso tant’è che ad oggi il Venezuela non è un Paese che gode di autosufficienza alimentare (deve cioè importare alimenti dall’estero per sfamare tutta la popolazione), restando spesso dipendente, in un settore nevralgico, dalle multinazionali alimentari.

Questa breve analisi sul caso venezuelano ci porta ad un riflessione più generale: i governi bolivariani non sono certamente riusciti ad intaccare i meccanismi di base del capitalismo nei rispettivi Paesi. Questo elemento non sarebbe “scandaloso”, vista la difficoltà dell’obbiettivo. Il punto più problematico è invece un altro, ovvero che, come in Venezuela, anche in Ecuador e Bolivia, Correa e Morales rischiano di far terminare il processo di cambiamento con la fine della loro personale parabola politica. E’ un film che abbiamo già visto in America Latina e non vorremmo si ripetesse. I grandi potentati economici del continente, quelli legati ai grandi proprietari terrieri locali e alla finanza internazionale, non aspettano altro e stanno foraggiando le opposizioni politiche anche in Paesi con governi alquanto moderati come Argentina ed Uruguay.
Ancora una volta i movimenti sociali dovranno ritornare protagonisti, a volte anche mettendo in discussione governi vicini od amici. La ripresa del protagonismo da parte dei movimenti sociali rimane, infatti, l’unico modo per rilanciare un processo di cambiamento che altrimenti rischia di arenarsi nello sterile dibattito sulle “successioni”.