Albania, 3 giorni di mobilitazione fermano le armi chimiche siriane

Thu, 13/02/2014 - 11:41
di
Arianna Federici e Enrico Lancerotto

Tre giorni di mobilitazioni della società civile, hanno messo alle strette il governo albanese che temporeggiava sulla proposta degli Stati Uniti di utilizzare l'Albania come base per lo smantellamento delle armi siriane, di cui la comunità internazionale dovrebbe occuparsi entro giugno.

I precedenti

La società albanese è attraversata da forti tensioni che sembrano essersi attenuate con la netta vittoria elettorale primaverile della coalizione di centrosinistra capeggiata dal partito socialista.
Due anni fa, le contraddizioni prodotte da uno sviluppo economico periferico che ha arricchito pochi lasciando indietro molti, esplosero contro il governo corrotto di Berisha. La polizia attaccò platealmente un corteo pacifico e disarmato causando la morte di tre persone.
Era solo l'ultima di una serie di tensioni che accompagnano il paese dall'uscita da uno dei regimi più isolazionisti della storia recente.
Ripetutamente, il bipolarismo tra due soggetti politici diversamente eredi del partito del lavoro di Enver Hoxha (il partito democratico di Berisha e il partito socialista di Nano), è stato attraversato da corruzione, clientelismo, brogli elettorali e distacco dai problemi quotidiani del paese.
Questi due soggetti politici sembrano aver bilanciato l'impermeabilità della segreteria da partito del socialismo reale, con la commercializzazione elettorale del modello statunitense, in un ambiente in cui la partecipazione è falsata dal fatto che un terzo degli aventi diritto al voto risiede fuori dai confini nazionali.
A giugno per la prima volta tutti i candidati hanno ammesso la netta vittoria, senza accuse di brogli, dell'ex sindaco di Tirana e artista Edi Rama.
La crescita economia rischia di essere guidata unicamente da un capitalismo predatorio che utilizza l'Albania come deposito periferico non solo di capitali e di merci in eccesso, ma anche di rifiuti tossici.
L'attuale governo ha da subito iniziato a lavorare per dimostrare un cambiamento di rotta, approvando la moratoria contro l'importazione di rifiuti tossici.
Nonostante ciò le prime vittime sono il paesaggio e l'ambiente di un paese che può contare su vaste e intaccate risorse naturali e turistiche. Non solo la costa da deturpare con immense speculazioni del mattone, ma anche l'esperienza nello smantellamento delle munizioni, in primis quelle del regime della Repubblica Popolare d'Albania.
Ad esempio, nel 2008, a Gerdec, l'esplosione di un deposito di munizioni controllato da un'azienda americana causò la morte di 26 persone.
Individuare l' Albania quale terreno di stoccaggio e smantellamento di arsenali è solo l'ulteriore conferma di come gli Stati Uniti l'abbiano utilizzata quale strumento di influenza e controllo sull'area balcanica.
Non dovrebbe stupire quindi che una delle principali strade della capitale, sede del parlamento, di una grande moschea in costruzione e punto di partenza delle mobilitazioni degli ultimi giorni, sia dedicata a George W. Bush.

Le proteste

La questione delle armi chimiche del regime di Bashar Al Assad è montata nel giro di una settimana dopo essere comparsa sui giornali il 6 novembre.
Ciò che non ha convinto, era la tranquillità del governo appena eletto, che temporeggiava mentre la comunità internazionale accelerava l'operazione, dovendo trovare una “sistemazione” per le armi chimiche entro gennaio ed essere distrutte entro giugno 2014.
Probabilmente la compagine di governo pensava di cavarsela con qualche frase di rito sulle “valutazioni in corso”, nell' attesa del “tempo dell'inevibilità” in cui l' opposizione alle armi chimiche avrebbe contraddetto il rispetto degli impegni internazionali.
Una tattica retorica più volte utilizzata negli ultimi anni dai riformisti occidentali, l'ultimo governo Prodi la utilizzò a man basse per giustificare la base americana del Dal Molin.
Dopo un primo presidio giovedì scorso, partecipato da qualche centinaio di persone in età lavorativa, venerdì mattina è riemersa quella rabbia apparsa nel febbraio del 2011, nel momento in cui, non a caso, scendevano in piazza migliaia di persone in tutto il mondo, soprattutto in Egitto e Tunisia.
Senza nessun soggetto organizzatore, ma con una pagina facebook di riferimento (1milione di albanesi contro lo smantellamento di armi chimiche in Albania https://www.facebook.com/pages/1-Milione-shqiptare-kunder-shkaterrimit-t... ) che in pochi giorni ha raggiunto più di 100mila “mi piace”, il 15 novembre più di tremila persone hanno accerchiato la piazza nei pressi del parlamento.
Non solo gli studenti delle facoltà di medicina con i camici bianchi o quelli di arte, ma anche famiglie con bambini con le mascherine sul viso, gli anziani e gli ultras del Tirana che scandivano i cori.
Il presidio è diventato mobile nel giro di un'ora, bloccando prima via George W. Bush in entrambe le direzioni, con autobus costretti alla retromarcia. Successivamente alla fine della seduta del parlamento che si tiene ogni giovedì mattina, il corteo ha paralizzato il traffico della capitale, arrivando sulla principale arteria che collega piazza Skanderberg a piazza Maria Teresa, per giungere alla sede del governo.
Lì un'assemblea permanente ha aspettato l'uscita degli studenti medi dalle scuole, che arrivando in corteo l'hanno ingrossata enormemente.
[Da Tirana]

Mentre gli interventi proseguivano da qualche ora, attraverso precari mezzi di amplificazione, l'enorme massa di persone ha scelto di bloccare la strada finchè il governo non avesse dato risposte certe.
La pratica dell'accampata (senza tende) è stata sicuramente resa possibile dalla determinazione delle persone, nel blocco del traffico e nell'interazione con la polizia, che per ordini superiori non ha represso con la violenza esercitata due anni fa sui manifestanti.
Una pressione permanente di fronte alla sede del governo ha permesso, più o meno consapevolmente, di allargare la protesta ad altre zone del paese e ad altri settori della società, e di non dare a Rama momenti di pausa, obbligandolo ad essere trasparente e netto nella decisione.
Il giorno successivo si è assistito ad un'ulteriore espansione della protesta a Tirana, con la presenza di decine di migliaia di persone nelle strade, il boicottaggio delle lezioni universitarie e la presenza in piazza degli studenti delle scuole superiori. Cortei e agitazioni si sono diffuse sull'intero territorio nazionale, anche nei più piccoli paesi sono stati attraversati dagli slogan contro le armi chimiche siriane.

La vittoria

Nel pomeriggio di venerdì 15 novembre Edi Rama, in un messaggio alla nazione, ha annunciato l'impossibilità per l'Albania di ospitare le armi del tiranno ancora alla guida della Siria.
Nel discorso ha tenuto un atteggiamento ambivalente, che se da un lato appoggiava le proteste, dall'altro celebrava i rapporti tra Stati Uniti e Albania. E' ricorrente vedere in Albania l'esposizione della bandiera a stelle e strisce a fianco di quella europea e albanese, anche negli appuntamenti ufficiali dei partiti socialisti (PSSH e LSI).
La vittoria istantanea della mobilitazione della società civile e degli attivisti ambientali è dovuta anche alla paura della coalizione di governo di Rama di bruciarsi immediatamente lo slogan “rinascita” (con cui si era presentato alle ultime elezioni).
L'ex premier Berisha infatti, ha provato insieme ad altri esponenti del Partito Democratico a cavalcare la protesta con un blitz al presidio permanente. Accolto dalle telecamere, spostava immediatamente il focus della protesta, dalle armi chimiche al fatto che questa fosse il segno dell'impopolarità del governo di centrosinistra.
Le persone che hanno animato la piazza durante i tre giorni, al contrario, hanno rifiutato da subito speculazioni partitiche o di appartenenza dichiarando di essere “cittadini interessati al proprio futuro e alla propria salute”.
Inoltre la piazza ha da subito saputo esprimere, seppur in modo confuso, elementi di auto-politica: la proposta di un referendum contro le armi nel medio termine e una protesta massiccia e permanente nel breve termine (erano già fissate manifestazioni per sabato e domenica).
Alla base di ciò, la principale carica elettrica del movimento è stata offerta da quella che potremmo definire “la faccia buona dell'imitazione della società occidentale”.
Nonostante la corruzione della politica alta e di partito, la società albanese sembra sempre più consapevole e critica dei processi di mercatizzazione e privatizzazione che hanno progressivamente investito il paese negli ultimi vent'anni.
Di fronte al parlamento nella giornata di giovedì ricorreva l'affermazione del “fare come in Europa”, “qua la gente non protesta, dobbiamo svegliarci e fare anche noi le proteste”.
Di fronte ad un'Europa che impone tagli alla spesa pubblica e salva le banche, paradossalmente, una società che in ogni modo insegue il sogno di uscire dall'isolazionismo del regime del Partito del Lavoro, nell'imitazione sfrontata dei brand commerciali occidentali, diventa globalizzata anche attraverso l'accesso alla protesta e la possibilità della stessa.
Sicuramente c'è un'idealizzazione di fondo, ma non è questo il punto, anche perchè è crescente e viva la consapevolezza di poter essere la periferia su cui l'occidente scarica rifiuti, mal-affari e armi.
“Vogliamo entrare in Europa e questo è il prezzo che ci fanno pagare” affermava venerdì un signore anziano di un piccolo paesino al confine con la Grecia.
La protesta sembra aver vinto quasi troppo in fretta, e per ora sembra che i tre incredibili giorni di mobilitazione, un risveglio della società civile a detta di molti, non siano riusciti a sedimentare una rete di attivisti, tra coloro che sono scesi in piazza nelle altre città albanesi.
Nei presidi e nei cortei contro l'arrivo delle armi chimiche c'erano alcuni elementi che potrebbero produrre delle forte frizioni nel caso in cui nascesse una rete di comitati anche su altre questioni.
Se da un lato era presente un atteggiamento fortemente anticapitalista che accusava Stati Uniti e Russia e reclamava il diritto a decidere del proprio territorio, dall'altro erano riscontrabili forti elementi nazionalisti, che fino ad ora, contrariamente al resto dei Balcani, non si sono declinati in rigurgiti fascistoidi (vedi lo 0,6 dell'alleanza rosso nera alle ultimi elezioni).