Il distacco dei giovani dalla sinistra e dalla politica attiva (ma è proprio così?) è ormai considerato un elemento dato, anche nei più stimolanti dibattiti a sinistra.
Ritengo che sia diventato ormai fin troppo facile attribuire alle trasformazioni neoliberiste dell’organizzazione del lavoro le cause dell’atomizzazione e della spoliticizzazione, come se il sistema economico in cui viviamo non fosse frutto di scelte politiche, e come se queste scelte le abbia fatte sempre un ceto politico rispetto al quale la sinistra ha dimostrato una netta alterità.
Così invece non è stato, non c’è stata alcuna alterità, la sostanza dell’operato politico da trent’anni è identica a se stessa a prescindere da chi governi, e con le tappe di costruzione di questo stato di cose la sinistra (parliamo di quella italiana ma la panoramica sarebbe globale) ci si è sporcata le mani, tanto.
Giudicare gli orientamenti politici (o l’assenza di essi) dei giovani senza questo elemento è l’ennesimo insulto che si può rivolgere a questa generazione.
Guardare poi al distacco fra giovani generazioni e la rappresentanza politico-elettorale che larga parte della sinistra vuole continuare a incarnare, esclusivamente dal punto di vista dell’urna, significa rovesciare un ordine degli addendi che in politica non si può cambiare: quello che si esprime nell’urna elettorale è espressione di cosa si muove nella società (una volta si parlava di “rapporti di forza” e di “classe”), non il contrario; ridurre questo elemento, per me banale, a “movimentismo”, significa ignorare il problema della costruzione di un’egemonia culturale alternativa al potere e alle narrazioni dominanti di cui la sinistra che vuole essere rappresentanza ignora i codici, e non comprende neanche la necessità di trovarli.
Da ormai troppo tempo, le principali forze della sinistra organizzata hanno pensato che la propria efficacia politica si misurasse solo con la rappresentanza politica e l’operato dentro le istituzioni, ignorando sistematicamente quell’opera di politicizzazione, rafforzamento delle coscienze collettive, costruzione di solidarietà e legami sociali contro le molteplici forme di sfruttamento, oppressione, discriminazione e disuguaglianza che il capitalismo neoliberista è in grado di spigrionare (tra l’altro scavalcando come mai nella storia recente il ruolo delle istituzioni “democratiche”).
Scendendo nel merito di questo operato dentro le istituzioni il quadro peggiora.
Senza fare l’elenco delle nefandezze dei vari governi Amato, Dini, D’Alema, Prodi uno e due, Monti e adesso Renzi, si può dire che la sinistra al governo non ha mai rappresentato discontinuità e alterità rispetto alla peggiore destra della storia repubblicana (né con il precedente dominio social-democristiano).
Data una simile omogeneità di politiche, chi studierà da storico fra qualche decennio questo periodo della vita politica italiana troverà inspiegabile l’assenza di forze politiche coerentemente e costantemente all’opposizione, come invece per decenni sono esistite.
Da trent’anni non esiste rappresentanza politica che non abbia deciso di misurarsi al governo, di giocarsi le sue carte nel governare la più crudele (e ingovernabile) forma di capitalismo degli ultimi cento anni.
La sinistra politica che ha fatto questa scelta (e quella che ha rincorso chi la faceva) è “semplicemente” passata dall’altra parte, perché governare, e durare nel farlo, ai tempi del capitalismo neoliberista significa aggredire con arroganza diritti e tutele, scatenare vere e proprie guerre a questo o quel settore lavorativo, significa privatizzare tutto, affermare l’assolutezza delle regole di mercato e sgretolare l’idea stessa di interesse collettivo.
La crisi economica ha dimostrato tutta la inconsistenza e la sostanza ideologica dell’immaginario costruito per i giovani negli ultimi decenni con le parole d’ordine della flessibilità, dell’età della conoscenza, della formazione continua. Nel peggiore dei casi la sinistra ha rincorso e alimentato tale narrazione, nel migliore non è stata in grado di contrapporne uno nuovo.
Non basta dire che il movimento operaio non c’è più, troppo facile ricondurre questo concetto all’assenza di lotte del mondo del lavoro, troppo superficiale affermare una presunta fine delle classi. Quello che non esiste, o almeno non nelle forme della politica organizzata tradizionale, è un fare politica utile, che costruisca consenso intorno a sé, che non abbia la pretesa di emergere a tre mesi della tornata elettorale di turno percepita infatti (e come potrebbe essere altrimenti?) come inutile o rituale.
Ridare un’efficacia concreta al “fare politica”, scindere questo virgolettato dal momento elettorale e intenderla come azione nel sociale, come attività costante e sistemica rivolta al cambiamento… uno sporcarsi le mani in vertenze, piccole lotte, processi di autorganizzazione, attivazione capillare di reti di solidarietà, pratiche quotidiane di mutualismo: tutto questo non darà un risultato elettorale a nessuno, ma è necessario a ricostruire un’idea della politica che in realtà non è mai morta.
Il tessuto sociale di questa generazione è tutt’altro che stagnante: i cupi anni novanta sono stati seguiti da quel triennio di partecipazione politica unico nel suo genere, quello dei social forum e di Genova, delle campagne in difesa dell’articolo 18 e contro le guerre U.S.A. che tanto attivismo e immaginario hanno prodotto; quegli studenti impoveriti e spoliticizzati che ci si scandalizza votino grillo o si astengono, dal 2005 al 2010 hanno prodotto le uniche vere fiammate di opposizione sociale dell’epoca berlusconiana; processi di attivismo e autorganizzazione inediti hanno ottenuto la prima vittoria referendaria dai contenuti fortemente anti-neoliberisti degli ultimi quarant’anni; esperienze di riappropriazione, autogestione e attivismo di ogni tipo continuano a riprodursi e a produrre, con tutti i loro limiti, immaginari e tessuti relazionali che in Europa hanno pochi paragoni.
“Io faccio politica”… sleghiamo questa dichiarazione dall’idea di rappresentanza, ridiamogli un senso che si misuri sull’utilità sociale e sulla voglia di un mondo più giusto… mettiamoci a fare politica.