Il Comitato per le bonifiche del territorio, dei mari e dei fiumi della Calabria denuncia la discarica a cielo aperto presente a Praia a Mare, comune dell'Alto Tirreno Cosentino.
Dalla macerie della Seconda Guerra Mondiale si comincia a ricostruire l'Italia. Punto e daccapo. Come la storia del Bel Paese ci insegna fu il Nord Italia a giovare della fiorente industria nascente, mentre il Mezzogiorno d'Italia provava a risollevare le sue già drammatiche condizioni finanziarie impegnandosi nell'agricoltura, nell'allevamento e nella pesca.
Terre povere quelle del Sud Italia. Terre che, però, godono di un meraviglioso paesaggio incontaminato ma su cui, piano piano, durante il secondo Dopoguerra cominciano ad allungare le mani i ricchi industriali “del Nord”, scegliendole come “succursali” dei propri profitti.
Il territorio comincia a subire forti cambiamenti: non ci sono più case sparse qua e la tra il verde degli ulivi, e diventa sempre più massiccia la presenza di piccole palazzine e di strade asfaltate e, come accade sull'Alto Tirreno Cosentino, per facilitare i trasporti e i collegamenti tra le estremità del Paese, si costruiscono la strada Fondo Valle Del Noce- SS 18 Tirrenica e l'autostrada del Sole A3 Napoli- Reggio Calabria (ancora avvolta in un interminabile work in progress).
E lo stesso avviene anche a Praia a Mare.
Nel paese abitato dai pescatori che ogni notte escono al largo sulla propria barca nella speranza di tornare al mattino con le reti cariche di pesci, e da allevatori e agricoltori che si alzano all'alba per raggiungere i pascoli e i campi, sono sempre più forti i segni di quel progresso economico e sociale che investirà l'Italia nel periodo definito “boom economico”.
Oltre al fiorente turismo che dagli anni 60 popolerà le spiagge praiesi permettendo la costruzione di hotel e residence, da cui poi negli anni successivi conseguirà anche una forte speculazione edilizia; Praia a Mare diventa una sorta di “polo industriale” per i centri della costa tirrenica cosentina e per i paesi lucani a ridosso del confine calabro.
In località Laccata, poi ribattezzata come “zona industriale”, sono avviate due aziende tessili la “Marlane” e la “Lini e Lane”, dove troveranno lavoro centinaia di operai e operaie provenienti dall'hinterland praiese.
Sono anni di forte crescita economica e sociale e pare che nulla possa scalfire il benessere raggiunto, finchè la situazione comincia a prendere una brutta piega.
Le due fabbriche passano di proprietà in proprietà e la “Lini e Lane” verrà chiusa per fallimento a metà degli anni 70, lasciando senza lavoro diverse persone.
Trascorrerà ancora qualche anno prima che lo spettro della disoccupazione, accompagnato dalla forte crisi economica, investirà totalmente l'intera cittadina.
E' infatti il 2004 quando la “Marlane”, dopo aver ridotto i reparti, decide di cessare la propria attività in Calabria per trasferirsi in Polonia.
“Perchè chiusero la fabbrica e ci tolsero il lavoro, e ci resero la vita molto dura.”, cantava Bertoli.
Con il lavoro è andata via anche la salute dei cittadini e delle cittadine praiesi e di chi, soprattutto per quanto riguarda la “Marlane”, aveva vissuto per almeno quarant'anni in mezzo ai fumi e ai veleni emessi dal reparto di tintoria.
Un diritto alla salute che non esiste e non viene garantito neanche a causa della chiusura dell'ospedale, principale fonte di salvezza per buona parte delle comunità montane limitrofe e degli abitati collocati sul litorale: infatti il nosocomio più vicino dista circa trentacinque chilometri; una distanza che raddoppia durante i mesi estivi o per i casi più disperati.
Dopo le morti bianche avvenute nella ex Marlane, provocate dal mancato rispetto delle norme a tutela dei lavoratori, di un ospedale diventato un Punto di Primo intervento con poche ambulanze costrette a raggiungere comuni tra loro lontani decine di chilometri o poco collegati, si scopre l'ennesima brutta sorpresa.
La “Lini e Lane”, un tempo famosa per la produzione di pizzi merletti e tovaglie, con il passare degli anni si è trasformata in una vera e propria discarica a cielo aperto.
Nei locali della ex- fabbrica una volta occupati dalle macchine utili al ricamo delle stoffe, da fin troppo tempo vengono ammassati rifiuti di ogni genere, che nel corso degli anni hanno condotto più volte i vigili urbani a porre sotto sequestro giudiziario l'intera area.
Tra le tante denunce esposte l'ultima, corredata da un servizio fotografico che documenta lo stato attuale dei capannoni, giunge dal Comitato per le bonifiche dei terreni, mari e fiumi della Calabria (che più volte aveva provato a sollevare la questione) indirizzata al sindaco di Praia a Mare Antonio Praticò, all'ASL, alla Procura di Paola e ai carabinieri.
Gli attivisti del Comitato sono molto preoccupati per la presenza dei tanti rifiuti speciali illecitamente smaltiti, come amianto e batterie di macchine, che trasformano lo scheletro di quella che fu un'importante azienda in un'esplosiva bomba ecologica. Nel raggio di pochi metri sono infatti presenti varie abitazioni, il cimitero, la chiesa, stabili in cui si svolgono attività lavorative, orti e piantagioni.
Insomma, il danno alla salute e all'ambiente che ne potrebbe derivare rischia di essere sempre più grave.
All'interno dell'impresa tessile ormai cessata, poi, vive una piccola comunità di Rom, conosciuta in tutto il paese e ormai italianizzata: inutile sottolineare quanta apprensione destino le precarie condizioni igienico- sanitarie presenti nel vecchio edificio, tana per diversi topi e rifugio dei cani randagi.
Il Comune accusa la proprietà, una società con sede a Scalea, di non essersi fatta carico del ripristino dello stabile. Intanto, mentre la palla della responsabilità sul risanamento dell'area rimbalza da un soggetto ad un altro, le richieste di bonifica avanzate dal Comitato, presenza attiva sull'intero territorio e grazie alla quale è stato possibile, durante questi mesi, essere portati a conoscenza dei tanti scempi che sul territorio si stanno consumando sotto un assordante silenzio, affogano nel mare della burocrazia e del menefreghismo assoluto delle istituzioni.
Eppure le soluzioni non sarebbero così difficili da trovare: una dignitosa sistemazione per la comunità Rom, magari all'interno delle case popolari o in altri locali di proprietà comunale, affinchè non vivano più in quelle condizioni disumane; e la bonifica del territorio, come appunto già richiesto dallo stesso Comitato.
E poi, visto che il tasso di disoccupazione aumenta giorno dopo giorno, perchè non pensare al recupero dell'azienda? Nell'ultimo periodo, tante sono le testimonianze di autogestione sperimentate nelle fabbriche dismesse. Non solo in America Latina o nel resto dell'Europa ma anche in Italia, con la Ri- Maflow di Milano, molti sono i lavoratori e le lavoratrici che stanno provando a dare una risposta concreta alla mancanza di lavoro, dimostrando che un'alternativa alle multinazionali e al “padrone” è possibile.
Perchè non tornare a scommettere anche qui, lanciando una sfida a se stessi e ad un'amministrazione comunale immobile? Perchè non tentare, provando a vincere contro una giunta regionale, principale responsabile del decadimento di un'intera regione, che ci vuole sconfitti?
Resistere è un dovere. Vincere si può.