Estrattivismo, accumulazione attraverso il dispossessamento, devastazioni ambientali, accaparramento delle terre e delle risorse naturali. Negli ultimi trent’anni queste sono le parole utilizzate per descrivere il rapporto del capitalismo con i territori. Il capitalismo sembra non creare più ricchezza e profitto attraverso la produzione, bensì attraverso la distruzione di risorse naturali, ecosistemi, relazioni sociali, vite umane. Per poi abbandonare i luoghi che non sono più capaci di generare profitti. Molti hanno proposto di chiamarlo «Impero». Le migrazioni non sono più movimenti di lavoratori diretti verso i luoghi nei quali c’è richiesta di manodopera per la produzione, ma fughe di massa da luoghi impoveriti, privati delle risorse basilari per la sussistenza, distrutti da conflitti, devastati dal cambiamento climatico.
Raasay, Rosarno, Smira sono paesi che hanno avuto questo tipo di incontro con la Storia.
Gli effetti della globalizzazione neoliberista, che consente ai capitali e alle merci di muoversi liberamente e che crea muri per rendere più difficili e dolorosi i movimenti delle persone, sono sotto gli occhi di tutti noi. In molti paesi del mondo e per molti ceti sociali, l’unica opposizione credibile al neoliberismo – negli ultimi anni spesso vincente anche sul piano politico – sono i movimenti e i partiti nazionalisti, xenofobi, razzisti, che rispondono alle disuguaglianze sociali chiedendo la chiusura delle frontiere, l’espulsione dei migranti, il protezionismo economico, la diminuzione dei diritti democratici.
Le forze tradizionali della sinistra, soprattutto nei paesi ricchi del Nord del mondo, sembrano non avere più parole e argomenti per contrastare questi processi e, se va bene, si limitano a una strenua, ma spesso inefficace, difesa di quello che resta dei diritti conquistati con le lotte e i movimenti, dalla Resistenza al nazifascismo fino agli anni Settanta.
Per questo è oggi importantissimo scrivere e leggere Cronache dalla Periferia dell’Impero, senza indulgere in inutili esotismi. I luoghi periferici sembrano più capaci, da almeno vent’anni a questa parte, di elaborare nuovi progetti e nuove visioni del mondo, radicalmente alternativi all’esistente. Fino a qualche tempo fa, il Nord del mondo, oltre a produrre imperialismo, colonialismo, sfruttamento, proponeva progetti alternativi al capitalismo, basati sull’idea che la classe operaia potesse guidare un cambiamento rivoluzionario nei rapporti sociali. Le lotte contemporanee per l’emancipazione sono invece sempre più basate sull’idea che sia necessario difendere i territori dalla devastazione e ricostruire su basi nuove comunità autonome, solidali, egualitarie. In questi movimenti, più che gli operai del Nord, appaiono cruciali i contadini del Sud globale. Un faro per molti è ad esempio l’idea di sovranità alimentare, cioè il diritto dei popoli a un cibo salutare e prodotto attraverso metodi sostenibili dal punto di vista ecologico, sociale e culturale, in cui le aspirazioni e i bisogni di coloro che producono, distribuiscono e consumano il cibo, siano più importanti delle richieste dei mercati e delle grandi aziende. Un’idea costruita da La Via Campesina, movimento transnazionale costituito da decine di organizzazioni contadine di moltissimi paesi, che ha le proprie basi più forti nel Sud del mondo, dall’India al Brasile. Un’idea a cui guardano con crescente attenzione anche i movimenti dei paesi ricchi. È dai margini, dalle periferie, che oggi si può imparare qualcosa su come costruire un nuovo tipo di emancipazione, una società più giusta.
L’idea di sovranità alimentare è praticabile anche nel Nord del mondo?
La vicenda di SOS Rosarno [2] ci mostra questo: un territorio periferico, dominato dalla monocoltura degli agrumi per l’esportazione, da un capitalismo aggressivo alleato con le mafie, da un devastante inquinamento, soprattutto dell’acqua. La sofferenza sia delle persone che qui sono nate e cresciute, sia delle persone che sono arrivate da altri paesi per cercare un impiego o semplicemente perché non avevano un altro posto dove andare. Come reagire? Emigrare è a volte una scelta obbligata. Un’altra possibilità è però quella di ricominciare a costruire relazioni tra persone diverse, basate sul mutualismo, sull’eguaglianza, sulla solidarietà e, a partire da queste, costruire un nuovo modello di società, di lavoro, di economia.
Si tratta di un lavoro lungo. Che deve ricostruire linguaggi e pratiche. Che necessita di organizzazioni, di formazione e di continua riflessione autocritica, altrettanto quanto di spontaneismo creativo. Ci vorranno anni e la sconfitta è sempre l’opzione più probabile.
Ma non possiamo fare altro che provarci.
*Fonte articolo: https://comune-info.net/2018/06/nuove-visioni-del-mondo-rosarno/ [3]