L’ultimo rapporto Scenari industriali del Centro studi di Confindustria conferma l’Italia come settima potenza industriale globale, seconda in Europa dopo la Germania. La distanza con il potente vicino è sensibile, ma alcune analogie sono evidenti e vengono confermate dal sistema creditizio che dei rispettivi sistemi industriali ne costituisce l’architrave. Nei primi anni della crisi, quando ancora non erano state approvate regole continentali per evitare aiuti pubblici incontrollati al sistema bancario, la Germania mise in cantiere un imponente sostegno al proprio sistema creditizio per circa 500 miliardi di euro. Denaro non sempre esborsato (solo 200 miliardi circa), ma utilizzato semplicemente a garanzia. Insomma riuscì a puntellare un sistema messo a dura prova non solo dalla finanza creativa che aveva intossicato i suoi istituti principali, assurti a player globali, ma anche da tanta parte di quelle banche locali nevralgiche per le economie dei Lander che stavano pagando a caro prezzo la recessione. Le banche popolari o semi-pubbliche tedesche superano abbondantemente il migliaio e costituiscono una risorsa territoriale pervasiva che da tempo svolge azione di supporto all’apparato produttivo. La profonda recessione vissuta negli anni seguenti al 2007 ha prodotto grandi sconquassi al sistema del credito. Difficoltà che rendono ancor più evidente un modello tedesco che ancora vive in simbiosi con le attività produttive e l’economia reale.
Sempre in quegli anni gli istituti di credito italiani apparivano più in salute, l’allora ministro Tremonti vantava addirittura una presunta solidità del sistema. A distanza di qualche anno, seppur risulti circoscritta l’attività speculativa e l’impiego di finanza tossica per il nostro sistema bancario (nulla di paragonabile a ciò che è accaduto nel mondo anglosassone), risulta altrettanto evidente come vi sia un effetto rinculo della crisi dell’economia reale negli istituti di credito legati ai territori. Un fenomeno simile a quello tedesco dei Lander appunto. Senza considerare Mps (quarta banca italiana), sono andate in crisi le banche del Centro prima (Banca Etruria, Banca Marche, Cassa di Ferrara, CariChieti) e del Nord-est dopo (Veneto Banca e Popolare di Vicenza). Ma il sisma non si è ancora concluso e in queste ultime settimane ha raggiunto Carige e Credito Valtellinese. La crisi di questi ultimi istituti emerge chiaramente al momento della formalizzazione della necessità di una loro ricapitalizzazione. Esse detenevano nei bilanci del 2016 crediti deteriorati, i famigerati Npl, pari rispettivamente a 7 e 4 miliardi di euro. Dopo anni vissuti all’insegna di un ridimensionamento del valore di Borsa, ora si teme che non esistano nuovi creditori sufficientemente interessati alle operazioni di salvataggio. Le difficoltà per queste banche sono riconducibili prevalentemente alla loro tradizionale attività, cioè la raccolta di depositi dalla clientela per fare credito a imprese e cittadini. La crisi ha tagliato le gambe alle medio-piccole banche disseminate lungo i territori. I debitori non sono solidi come si era ipotizzato negli anni delle vacche grasse e del credito facile. I piccoli risparmiatori ora tremano, le realtà locali dopo aver pagato duramente la crisi temono le conseguenze di una perdita delle loro infrastrutture del credito. Un circolo vizioso che rischia di far nuovamente tornare sotto la linea di galleggiamento intere comunità.
Focalizzare correttamente questi problemi consente di relativizzare l’idea secondo cui basterebbe tornare alla sana economia reale di un tempo, magari a una variante di quella dei primi trent’anni del dopoguerra. Le cose sono più complicate: sono i dispositivi economico-produttivi, e non solo quelli finanziari, a non funzionare come un tempo e tornare indietro non si può.
*Fonte articolo: https://ilmanifesto.it/crisi-del-credito-italia-e-germania-a-confronto/ [2]