Podemos visto dall'alto

Thu, 06/08/2015 - 17:58
di
Felice Mometti*

Le vicende interne a Podemos delle ultime settimane mostrano quanto sia complicato il periodo che sta attraversando. Il venir meno del monopolio di un’immagine antisistema, messo in discussione dalla formazione di destra di Ciudadanos, la scarsa partecipazione alle primarie (16% degli aventi diritto) per le candidature alle prossime elezioni politiche, lo scontro interno sulle procedure democratiche da adottare e sulle alleanze elettorali stanno a indicare la natura delle difficoltà che deve affrontare nei prossimi mesi. Un clima interno reso ancor più difficile dai recenti sondaggi che lo collocano dietro sia al Partito Popolare sia al Partito Socialista. Un ingorgo di contraddizioni che sta mettendo a dura prova la leadership del partito. Se e come verranno affrontate e, nel caso, risolte queste contraddizioni influirà in maniera determinante sul futuro di Podemos. Nel frattempo può essere utile, per avere qualche strumento in più, guardare alla recente produzione politica e teorica delle tre figure pubbliche con maggior riconoscimento politico: Pablo Iglesias[1], presidente del partito e candidato primo ministro; Juan Carlos Monedero[2], tra i fondatori di Podemos, che è stato responsabile del programma e del processo costituente del partito, dimessosi tre mesi fa dal gruppo dirigente ristretto; Inigo Errejon[3], attuale responsabile della strategia e della comunicazione per la segreteria politica.

Rifondare la sinistra o «articolare» un nuovo popolo?

Il movimento degli indignados, ma soprattutto le successive mareas contro gli sfratti, per la sanità e la scuola pubbliche e le aggregazioni sotto la sigla Juventud sin Futuro, per Iglesias hanno rappresentato una rottura profonda rispetto alla politica del passato. La sinistra, istituzionale o radicale non fa differenza, non ha compreso che questi movimenti erano composti da una chiara maggioranza di giovani delle classi medie impoverite dalla crisi. Provenienti da settori con scarsa presenza sindacale e poca connessione con gli spazi politici della sinistra, si sono ritrovati improvvisamente deboli e vulnerabili dopo essersi identificati socialmente con gli alti livelli di consumo durante la lunga bolla immobiliare spagnola. L’analisi di Errejon, pur tenendo ferme le considerazioni sugli indignados, si allarga facendo analogie con l’America latina e la Bolivia in particolare prima dell’elezione di Morales. L’accumulo di richieste non soddisfatte da parte del potere politico e la conseguente cristallizzazione delle stesse, porta a tracciare una frontiera interna alla comunità politica che delimita il «noi» e inevitabilmente il «loro». Si tratta allora di «dicotomizzare», termine caro sia a Iglesias sia a Errejon, ancor di più questo nuovo spazio politico e discorsivo che si viene a creare. Come? Usando come strumento politico il concetto di articolazione preso direttamente dall’elaborazione di Laclau. Cioè combinare politicamente elementi eterogenei il cui nesso è esterno alla natura degli stessi, e ne modifica i connotati. Qui risiede il senso dell’operazione fatta da Iglesias nei talk-show politici spagnoli, a partire da La Tuerka e Fort Apache. Il «professore con il codino», diventando una star televisiva, ha impersonato il nesso esterno necessario alla combinazione di elementi eterogenei. La televisione, nella società spagnola, viene concepita come il veicolo privilegiato di creazione/amplificazione ideologica di un senso comune ancor più dei social network, che sono tuttora relegati a un ruolo subordinato. Iglesias parla esplicitamente di TV-Nation, della costruzione discorsiva e trasversale di identità popolari, molto più efficace dei luoghi tradizionali di produzione ideologica come la famiglia, la scuola, la religione. Lo spazio mediatico, questa la tesi, è suscettibile di politicizzazione elettorale. La maggior parte degli argomenti ascoltati nei bar o nei luoghi di lavoro sono generati da «opinion maker» che appaiono in TV o trasmettono alla radio. Gli immaginari sociali sono in gran parte modellati da format televisivi apparentemente non ideologici e apolitici, presentati come semplice intrattenimento, ma che costituiscono importanti operazioni ideologiche percepite poi come il senso comune. La dicotomizzazione dello spazio mediatico avviene con una comunicazione politica che identifica un «noi, il popolo» contrapposto a un «loro, la casta», un popolo politicamente socializzato attraverso la televisione. Podemos come interprete di sinistra delle lezioni di Berlusconi e Grillo? Non proprio, dal momento che Podemos è anche altro, come si evince, ad esempio, dalla posizione di Monedero.

Monedero rappresenta un’altra sensibilità interna a Podemos. I partiti sono in una crisi profonda ma non hanno completamente esaurito la loro funzione di attivare dei legami sociali. Così come li conosciamo sono inservibili, si tratta di capire come può avvenire la loro rigenerazione evitando quelle che Monedero definisce la «cartellizzazione dei partiti» e la «professionalizzazione dei movimenti sociali». Per scongiurare questo rischio è necessario dividere chiaramente i compiti: i partiti devono rappresentare il popolo, i movimenti sociali l’opinione pubblica. Generando in questo modo, con i movimenti sociali nel ruolo di «guardiani del genoma democratico», un circolo virtuoso che può dar luogo a forme di democrazia deliberativa. Nel caso di Monedero, che pure condivide con Iglesias e Errejon l’idea di una radicale trasformazione delle forme e dei contenuti della comunicazione politica, pare evidente il riferimento all’elaborazione di Habermas. Egli, tuttavia, non si ferma qui e va oltre. Vuole recuperare, mettendole in relazione, le tre forme dell’agire di sinistra che hanno caratterizzato la Spagna del dopo Franco: l’azione riformista, quella rivoluzionaria e quella ribelle. Prese singolarmente sono soggette a riprodurre i soliti vizi rispettivamente di istituzionalizzazione, settarismo e irrilevanza, ma facendole interagire in un contenitore nuovo – luogo di una nuova identità popolare – possono rifondarsi e rigenerarsi. Monedero non spiega però come questo processo possa avvenire, a parte insistere sul fatto che Podemos dovrebbe essere in grado di svolgere contemporaneamente un triplo compito: luogo di formazione delle nuove identità popolari, contenitore della rigenerazione della sinistra, incubatore di movimenti sociali. Pare troppo anche per un’organizzazione politica innovativa.

Né di destra né di sinistra

In Spagna, secondo Iglesias, negli ultimi anni è avvenuta una cristallizzazione della cultura della contestazione che non può essere colta con le categorie di destra e sinistra. La frammentazione e la trasversalità dei soggetti coinvolti e delle rivendicazioni avanzate hanno scardinato il campo politico. La sinistra di qualsiasi collocazione è fortemente squalificata per la sua incapacità – ormai strutturale – di svolgere un ruolo centrale nello spazio politico. Essere assimilati ai partiti di sinistra, anche radicale, entrerebbe in rotta di collisione con la necessità di formare una nuova identità popolare sopratutto attraverso quello che si considera il terreno di maggior produzione ideologica, la televisione. Della destra non serve nemmeno parlarne per ovvi motivi. La sinistra è ancora prigioniera della logica della rappresentanza di soggetti che si mobilitano su obiettivi sociali o programmi politici. La Marcia per il cambiamento indetta da Podemos il 31 gennaio scorso, che ha visto la partecipazione di alcune centinaia di migliaia di persone, non aveva alcun obiettivo politico specifico. È stata la rappresentazione della volontà di un cambiamento generale da parte di un «popolo» che non accetta più di essere dominato dal sistema dei partiti. È la lotta «del basso» contro «l’alto». Quella marcia ha installato Podemos al centro della scena politica molto più di tante mobilitazioni o scioperi gestiti dalla sinistra politica e sindacale. Iglesias non perde occasione per smarcarsi soprattutto dalle pratiche e dai simboli della sinistra radicale, estremamente controproducenti – a suo avviso – per compiere un salto di qualità politico e organizzativo. Monedero, per giungere più o meno alle stesse conclusioni, parte più da lontano. Cita Debord per dimostrare che la sinistra non è all’altezza dell’attuale società dello spettacolo e sostiene che la classe operaia non si lascia più rappresentare perché troppo eterogenea, plurale, composita e meticcia. La classe operaia non vede più se stessa come classe operaia e il precariato può riflettersi solo in uno specchio andato in mille pezzi. Per uscire dalla crisi economica, politica e sociale è necessario combinare strutture rappresentative tipiche della forma-Stato a strutture di democrazia partecipativa, l’amministrazione con l’autogestione, l’economia sociale con le grandi aziende. La sinistra non è in grado di porsi questi compiti perché ormai ridotta al «partito dei reclami» e perché ha introiettato quello spirito vittimista tipico di chi si crede indispensabile ma non possiede linguaggi, analisi, immaginari, forme organizzate per esserlo. Se proletariato, classe operaia, precariato sono inservibili e superati per cambiamento sociale, che cosa rimane? Per Monedero il soggetto politico e sociale in grado di mettere in crisi gli ingranaggi della società capitalista è la cittadinanza critica che con la nonviolenza e la disobbedienza civile, rigorosamente trasversali alle nuove identità popolari che non sono né di destra né di sinistra, apre un nuovo spazio politico.

Performatività versus etica

Gramsci è sicuramente un importante pensatore di riferimento per i leaders di Podemos. Un Gramsci letto attraverso Laclau per Iglesias e Errejon e un Gramsci «disobbediente civile» per Monedero. Le categorie gramsciane di egemonia e guerra di posizione sono le chiavi di volta del loro discorso politico. Secondo Errejon, che segue Laclau, la politica non è un incontro di boxe in cui si deve atterrare l’avversario e nemmeno una partita di scacchi con tanto di mosse e tattiche, ma una «guerra di posizione» continua con episodi di movimento, ma anche di consolidamento istituzionale del potere. La frammentazione delle identità nella loro possibile (inevitabile?) contingenza non porta alla fine dell’antagonismo, ma alla consapevolezza della necessità insostituibile per politica di generare e articolare un immaginario. Questo potere è l’egemonia: la capacità di un gruppo di presentarsi come l’incarnazione di un interesse generale, ad esempio una persona fisica che genera attorno a sé un universale. Non è solo questione di leadership di alleanza di forze, ma di costruire un nuovo senso comune che produce un ordine morale, culturale e simbolico in cui i subalterni e anche gli avversari devono operare con le modalità di chi detiene l’egemonia. In questo modello svolgono un ruolo di primo piano i cosiddetti «significanti fluttuanti», quei simboli o vettori di legittimità che non vanno in una particolare direzione e che quindi possono essere i catalizzatori di una serie di frammenti o aspirazioni trascurate per diventare un «noi» con una volontà politica che richiede sempre la definizione di un «loro», cioè i responsabili dei problemi.

Pablo Iglesias, «il professore con il codino», molto presente sugli schermi televisivi spagnoli, ha funzionato come «significante fluttuante», prima socializzando discorsivamente un «popolo mediatico», poi introducendo una serie di rivendicazioni generali contro la «casta» e, infine, promuovendo la formazione dei circoli di Podemos. Quando Iglesias insiste a parlare di sfratti, di corruzione, di disuguaglianze, e resiste alle discussioni sulla forma dello Stato (monarchia o repubblica), sulla memoria storica o la politica repressiva del governo, ciò non significa che non abbia una posizione su tali questioni o che sia un moderato. Piuttosto ha la convinzione che senza un apparato di potere istituzionale non ha senso concentrarsi su questi temi di lotta che gli alienerebbero la maggioranza che non è collocata a sinistra. E senza essere una maggioranza non è possibile accedere alla macchina amministrativa e combattere queste battaglie discorsive in altre condizioni. Un discorso simile, Iglesias, lo fa a proposito della sua proposta di politiche economiche neo-keynesiane.

L’egemonia gramsciana associata alla guerra di posizione, in questo caso, è concepita come la capacità performativa del discorso politico-mediatico di farsi senso comune. Gli atti linguistici di Austin e l’ordine del discorso di Foucault sono per Iglesias e Errejon la vera cassetta degli attrezzi della politica contemporanea. Monedero si discosta da questa interpretazione e si pone un’altra domanda. Perché obbediamo nonostante le ingiustizie, le diseguaglianze, la violenza di questo sistema politico, sociale, economico? L’obbedienza, secondo Monedero, dipende da quattro fattori: la coercizione, l’inclusione sociale, la routine (eliminazione di alternative), il controllo. L’egemonia è la probabilità che le classi dominanti hanno di controllare le classi dominate. Il compito di gestire la capacità coercitiva dello Stato è affidata al governo. Ma lo Stato è una relazione sociale che lo rende uno strumento essenziale per la trasformazione, uno strumento che, a seconda delle mani in cui si trova, può essere molto pericoloso o determinante per quella stessa trasformazione. Per Monedero lo Stato è uno strumento quasi neutro in quanto lavora per coloro che riescono a conquistare l’egemonia nella società. Quindi, se quelli che stanno in basso rifiutassero il senso comune costruito da quelli che stanno in alto, si aprirebbe una crisi di egemonia. Come? Con pratiche di disobbedienza civile come elementi trasformativi dell’indignazione in senso comune per costruire una «politica decente» egemonica. Monedero fa appello a comportamenti etici che permetterebbero alla sinistra di essere «empatia radicale in movimento», a non costringere gli altri ad accettare ciò che non si accetta per se stessi.

L’assalto elettorale

In questo quadro non è un’esagerazione sostenere che la scadenza delle elezioni politiche di novembre assume i connotati della madre di tutte le battaglie. Dove le nuove identità popolari dovrebbero trasformarsi in scelte elettorali. Iglesias è il più esplicito: l’obiettivo strategico di Podemos sono le elezioni di novembre, tutto il resto è subordinato. Le coalizioni locali, con altri movimenti sociali e forze della sinistra, che hanno vinto le elezioni amministrative di Madrid, Barcellona e altre città non sono il modello da seguire a livello nazionale, sono state tappe di avvicinamento. Alle elezioni politiche Podemos deve presentarsi con il proprio simbolo, con il proprio discorso facendo leva sul «significante fluttuante» che si è conquistato. Il ciclo aperto con la grande Marcia del cambiamento di fine gennaio si concluderà con le elezioni di novembre. Poi se ne aprirà un altro in base ai risultati elettorali. Probabilmente è questa impostazione molto rigida del ruolo di Podemos che ha provocato le dimissioni di Monedero dal gruppo dirigente ristretto. Per Iglesias e Errejon è una partita in cui ci si gioca il tutto per tutto. Non può essere altrimenti visto che paragonano la situazione politica attuale a quella degli anni ’30 dove, allora, lo scontro era tra fascismo e comunismo, mentre oggi è tra popolo e casta. Una cosa è certa: sicuramente Podemos dopo l’assalto al Palazzo della Moncloa con le schede elettorali non sarà più lo stesso.

[1] Pablo Iglesias, Understandig Podemos e Spain on edge, «New Left Review 93», May-June 2015.

[2] Juan Carlos Monedero, Corso urgente di politica per gente decente, Feltrinelli, 2015.

[3] Inigo Errejon, Ernesto Laclau teorico de la hegemonia, Público, 2014 e La costrucción discursiva de identidades populares, Viento Sur 114, 2011.

*Articolo pubblicato su: http://www.connessioniprecarie.org/2015/08/06/podemos-visto-dallalto/