Obama, triste e solitario...

Sat, 29/03/2014 - 13:27
di
Piero Maestri

Il presidente degli Usa Barack Obama è sbarcato in Europa (e in Italia) in una visita difficile e in un momento particolare per la sua presidenza e per il ruolo degli Stati uniti nella politica globale. La sua agenda di incontri spaziava dai temi della difesa a quelli economici - con un particolare interesse per questi ultimi.
L'economia statunitense non è certamente uscita dalla crisi - in gran parte da essa stessa provocata - ma nell'ultimo anno ha fatto qualche passo avanti grazie alle politiche monetarie espansive della Fed e alla nuova posizione statunitense di esportatore di materie prime energetiche. Questo nuovo ruolo è uno dei motivi che ha spinto Obama a viaggiare verso l'Europa, per provare a forzare i tempi di approvazione del Trattato di liberalizzazione degli scambi e degli investimenti tra Europa e Stati Uniti (T-Tip), che permetterebbe agli Usa di piazzare con più facilità le sue esportazioni di materie prime energetiche nei paesi della «vecchia Europa».
L'insistenza sulla necessità di un «superamento dell'austerità» - riportata per esempio dai giornali italiani che hanno voluto a tutti i costi sottolineare l'identità di vedute con il presidente del consiglio Renzi, in funzione di pressioni sulla Merkel - non ha ovviamente nulla a che fare con la «lotta alla povertà» di cui si sono riempiti la bocca il presidente Usa e il papa cattolico nella visita così utile a fini elettorali interni, quanto con la volontà Usa di avere un maggiore mercato in Europa per le sue merci e materie prime.
Anche la vicenda ucraina viene giocata in termini economici, con l'«offerta» di Obama di sostituire le forniture di gas russo nel caso di sanzioni o altre rotture tra i paesi europei e il loro fornitore da oriente.

Altro tema «caldo» della visita di Obama in Europa è quello di una maggiore condivisione delle spese per la difesa comune.Che la Nato stia vivendo una profonda crisi, interna e sul campo (ormai tutti i paesi coinvolti stanno facendo di tutto per sfilarsi dalla guerra afghana) è chiaro a chiunque non si fermi alla propaganda o non abbia un semplice riflesso pavloviano di fronte a quanto accade nelle varie regioni del pianeta, scambiando ogni tensione sociale per un complotto delle agenzie occidentali (che ovviamente non sono assenti e fanno il loro sporco lavoro). Nel prossimo futuro è davvero impensabile che la Nato possa essere coinvolta in nuove avventure militari, a parte qualche intervento a basso rischio e in genere voluto da qualche governo in prima persona, con successivo parziale coinvolgimento dell'Alleanza atlantica (come nel caso degli interventi africani del presidente francese Hollande).
Questo non comporta ovviamente uno scioglimento o un ridimensionamento effettivo della Nato, e la potenza ancora egemone al suo interno cerca di coinvolgere gli alleati in una maggiore spesa per la difesa, per garantirsi il mercato bellico europeo e per poter razionalizzare la spesa militare in casa propria, dove i tagli del budget coinvolgono anche questo settore.

Proprio in materia di politica estera e della difesa si notano tutte le difficoltà e i limiti di manovra del presidente statunitense e del suo paese. La strategia politico-militare di Obama (l'avevamo affrontata in un'analisi in occasione del CommuniaFest lo scorso settembre) non è certamente quella del suo predecessore - dal quale in compenso ha ereditato le patate bollenti di Iraq e Afghanistan, il primo lasciato in balia di una profonda ingovernabilità ed esposto a tutte le tensioni della regione mediorientale e il secondo alla vigila di elezioni presidenziali che rendono più complicato un accordo sullo status della presenza delle forze Usa nel paese nel prossimo futuro.
Obama è stato però costretto a giocare su tavoli che avrebbe probabilmente preferito evitare, concentrando la sua attenzione all'Asia, che rimane il centro della sua strategia globale.
In primo luogo le rivoluzioni della regione araba - con il corollario della guerra civile in Siria - che hanno portato gli Usa a cercare di sostenere forze che garantissero una nuova stabilità una volta spezzata quella garantita dai governi autocratici di Mubarak, Ben Ali e dello stesso Gheddafi, con risultati non molto brillanti: in Tunisia la situazione è ancora aperta e la possibilità di una maggiore democratizzazione e partecipazione popolare è ancora aperta; in Egitto il colpo di stato del generale Al Sisi (che nell'ultimo mese si è rivolto alla Russia di Putin in cerca di un maggiore sostegno al suo ruolo regionale, che prevede tra l'altro il sostegno al regime di Assad, migliore alleato russo nell'area, e una pressione repressiva nei confronti dei palestinesi di Gaza, che non dispiace al governo israeliano) non avviene con il diretto appoggio degli Usa, che devono comunque sostenerlo per non perdere un alleato così importante; in Libia il governo non riesce a garantire alcuna stabilità e non segue esattamente le volontà di statunitensi ed europei; in Siria il proseguimento della guerra civile spinge gli Usa a trovare qualche forma di accordo con Iran e Russia per trovare una soluzione negoziata che salvaguardi le strutture dello stato siriano e non una caduta del regime verso un futuro incerto per gli interessi delle diverse potenze nella regione.
Un quadro decisamente non così positivo per le politiche statunitensi, che cercano di affermare la loro egemonia con un ruolo meno direttamente militare - che rimane preponderante - per poter guidare una transizione «ordinata» e che continui a tutelare i loro interessi nella regione.

Un quadro complicato dalle ultime vicende ucraine. Non siamo tra coloro che leggono il movimento cresciuto in Ucraina come un semplice prodotto delle agenzie statunitensi e occidentali e frutto di un complotto per staccare definitivamente l'Ucraina dall'orbita russa. Questo non significa che gli Stati Uniti non abbiano cercato di condizionare gli eventi e non abbiano sostenuto alcuni settori dell'opposizione a Yanukovic che potessero produrre un maggiore avvicinamento dell'Ucraina all'Unione europea e agli Stati Uniti (in particolare consegnandone le prospettive economico-finanziarie al ruolo del Fondo monetario internazionale). Il risultato non sembra però così positivo per gli Stati Uniti, e Obama in questi giorni non sembra aver raccolto una grande adesione alla sua politica di maggiori pressioni su Putin e la Russia.
Da una parte la vicenda ucraina, oltre ad aver portato al governo di Kiev anche settori non così controllabili da Usa e Ue, ha dato la possibilità a Putin di giocare la carta della secessione della Crimea e dell'annessione di questa alla Russia, minacciando ulteriori espansioni, se non territoriali, di influenza politico-militare in altre regioni dell'Ucraina e di altre aree ex-sovietiche (è il caso per esempio della Moldova/Transnistria...). In questo modo la Russia ha ulteriormente rilanciato il suo rinnovato ruolo globale (nelle scorse settimane il ministro della difesa russo ha parlato della possibilità di stanziare proprie basi militari a Cuba, in Venezuela e Nicaragua: i governi di questi paesi hanno smentito questa possibilità, ma la sola circolazione della notizia è significativa della partita che il presidente russo vuole giocare per evitare l'isolamento e continuare a garantirsi mano libera nel proprio giardino di casa: in questo senso le sue dichiarazioni sulle passate violazioni del diritto internazionale da parte degli Usa - vere - sono un modo per sottolineare questa volontà di spartizione delle aree di influenza...).

Putin inoltre è riuscito a far schierare parzialmente la Cina sia sulla questione ucraina che su quella siriana, i due Paesi stanno stringendo relazioni sempre più strette sia nel campo economico-energetico sia in quello politico. Il gigante asiatico infatti tradizionalmente evita di esporsi su vicende globali che non riguardano la sua zona di influenza geografica (ovvero il sud est asiatico e l’area del pacifico) ma nel caso ucraino ha fatto sentire il sostegno alle ragioni russe. Cina e Russia inoltre stanno togliendo importanti fette di mercato agli USA in Sud America tramite accordi commerciali o di sfruttamento parziale delle risorse naturali di molti paesi di quell’area. Questo non significa che la Cina voglia irrigidire le sue relazioni con Washington (le economie dei due Paesi sono infatti strettamente interconnesse) ma che certamente ha rafforzato ulteriormente il rapporto con Mosca.

Dall'altra parte la gestione della crisi ucraina ha messo a nudo le differenze tra i governi europei (in particolare Germania e Italia, principali partner commerciali della Russia) e gli Usa. L'Unione europea si è così limitata a dichiarazioni e alla sottoscrizione solamente parziale dell'accordo di partenariato con l'Ucraina, frenando rispetto a possibili sanzioni che andassero oltre la sospensione della Russia dal G8 e poco più.

Obama torna a casa senza grandi risultati se non di immagine, legati soprattutto al suo incontro con il papa. La strategia globale di Obama rimane debole e senza la forza egemonica che avrebbe voluto mostrare - forza che risiede ormai essenzialmente sul proprio ruolo nucleare (non casualmente ribadito nella prima conferenza a cui Obama ha assistito in questi giorni in Europa) e sul suo comunque insostituibile ruolo economico, non più locomotiva globale ma allo steso tempo capace di scatenare e far pagare ad altri nuove crisi. Per questo gli Usa rimarranno al centro delle alleanze globali dei paesi dell'Unione europea (e dell'Italia), incapaci di proporre qualsiasi alternativa in quanto corresponsabili delle stese politiche economico-finanziarie mondiali.

p.s. sugli incontri italiani di Obama ci pare sia poco interessante soffermarci, non essendo andati al di là dello spettacolo e della legittimazione di Renzi quale partner «affidabile» (al quale si potrà permettere di rinunciare a qualche F35, ma non di ridurre realmente le spese militari). Per i romani resta il solito caos creato in città dalla visita del presidente Usa (ma la consapevolezza che il Colosseo è più grande di un campo di baseball...) - oltre a limitate proteste e a significativi cartelli di critica a Obama e sostegno a Putin affissi dai diversi gruppi neonazisti della capitale.
Ai milanesi - non direttamente toccati dalla visita presidenziale - resta la soddisfazione del sindaco Pisapia per l'adesione degli Usa a Expo2015 finalmente annunciata: l'ennesima prova di quanto potrà essere una schifezza l'evento del prossimo anno.