Il terrorismo va sconfitto dal basso

Fri, 27/11/2015 - 15:41
di
Gianluca Risi

In una quasi fredda sera romana stavo tornando a casa con due amici dopo una festa di laurea in centro. Usciti dalla metro, ci troviamo davanti a quello che sta diventando lo scenario tipico per tutti noi pendolari romani nel post-Parigi, ovvero i militari ai tornelli con tanto di mitra e cani al seguito. Io avevo con me questo libro, preso all’Aula Autogestita di Lettere dell’Università nel pomeriggio.

Uno dei due militari lo nota e si gira verso di me con fare minaccioso, in un mix di sospetto e irritazione per la donna musulmana in copertina (come mi permettevo ad andare in giro con libri del genere dopo gli attentati?!).
È da questo episodio che ha origine la spinta che mi porta a scrivere quest’articolo, forte anche di vari percorsi partiti sul territorio e dei ragionamenti assembleari, nonché dell’enorme mole di chiacchiere e documenti che girano al riguardo. Ovviamente, non è possibile trattare per intero l’argomento ‘’terrorismo islamico’’ per vastità del tema e per mie personali carenze, ma è possibile puntare la lente d’ingrandimento su una delle ragioni della radicalizzazione del fenomeno, specialmente in questi ultimi tempi. Non ho intenzione di soffermarmi sulle responsabilità geopolitiche Occidentali, sul traffico di armi in Medio Oriente o sulle scissioni religiose interne al mondo islamico. Ciò che mi preme capire è in che modo si può agire dal basso per prevenire, da parte nostra, una parte del problema.

Partiamo con l’osservare i dati (risalenti allo scorso anno) relativi alla provenienza dei terroristi, con particolare attenzione a quelli riferiti al mondo non-Islamico. Le cifre sono sempre scivolose e spesso contraddittorie, ma la presenza straniera in Siria e Iraq è valutata intorno ai 17.000 combattenti (la confusione dei dati è dovuta al fatto che alcune stime si riferiscono al solo Iraq o alla sola Siria, alcune al solo Isis, altre all’intera galassia di gruppi combattenti nei due paesi). In termini assoluti i contingenti più cospicui provengono da Cecenia, Nord Caucaso (circa 9.000), Turchia (1.000) – la stessa Turchia del dittatore Erdogan principale alleato della Nato – e Kosovo (400 volontari). Ma il dato che interessa noi è che ben 1.900 ‘’foreign fighters’’ vengono dall’Europa occidentale (700 dalla sola Francia, 340 dalla Gran Bretagna, una sessantina dall’Irlanda), un centinaio dagli Usa, e tra i 50 e i 100 persino dall’Australia. Altro dato cruciale è la sempre più giovane età (fra gli attentatori parigini anche un ragazzo di soli 20 anni) di chi sceglie di abbandonare la vita e diventa la morte, sua e degli altri.

Si pensa solitamente che siano spinti ad ‘’arruolarsi’’, fisicamente e mentalmente, per scappare da situazioni di povertà estrema e che abbiano tendenzialmente un basso livello di istruzione. Ma è falso, come risulta dall’identità dei terroristi di Parigi, cittadini di Francia e Belgio (paesi con welfare e diritti decisamente più elevati ed avanzati rispetto all’Italia) perfettamente istruiti ed ‘’apparentemente’’ inseriti nella società. Ecco, tutto questo mio sproloquiare vuole ruotare attorno a quel ‘’apparentemente’’.

Oltre alle responsabilità in ambito geopolitico legate a guerre, traffico di armi, interessi sulle risorse ecc., c’è anche il fallimento di un certo modello di accoglienza e la colpevolezza dei paesi del 1° e 2° mondo nella ‘’mancata integrazione’’, che ha dato luogo ad un processo di esclusione o ghettizzazione vera e propria di tutto ciò che risulta ufficialmente diverso dagli standard culturali imposti dall’alto nel paese in questione. Ed è proprio questa ghettizzazione a rendere affascinante l’ipotesi ‘’Isis’’.
Attenzione quindi alla carica emotiva veicolata dai media ufficiali, guidati da chi su razzismo e discriminazione – basati a loro volta su ignoranza e analfabetismo funzionale – ha solo da guadagnare a livello economico ed elettorale. C’è bisogno di un lavoro sociale e politico, ma non possiamo più aspettarcelo da parte dell’Occidente istituzionale, che ha dimostrato in questi anni di esser legato a filo doppio a giochi d’interessi e secondi fini. Le voci economiche sono sempre al di sopra di qualsiasi numero di vittime, a maggior ragione se sono vittime arabe, mediorientali e ‘’lontane’’ fisicamente e culturalmente dagli standard delle nostre società. Serve pertanto un forte segnale dai movimenti dal basso, pur essendo essi stessi sotto un feroce attacco repressivo ovunque. Esempio emblematico a noi molto vicino è il blitz della polizia al centro di accoglienza romano ‘’Baobab’’, alle 6.30 del mattino del 24/11, dal quale hanno prelevato 24 persone che ora sono a rischio espulsione. Il Baobab è l’unico centro d’accoglienza a Roma che gestisce, su base volontaria, l’emergenza transitanti nella Capitale e si parla di decine di migliaia di persone. Esempio che rende evidente come l’azione di prevenzione del terrorismo da parte degli organi di polizia statali, sia spesso un pretesto per una più diffusa repressione in primis verso le minoranze e poi verso i movimenti che le sostengono.

Daesh, come chiamano dispregiativamente l’Isis coloro che gli si oppongono, si basa su una identificazione religiosa, dominante negli stati arabi dopo il crollo del comunismo, quando gli ideali politici delle zone limitrofe sono stati sopraffatti da quelli religiosi. Ideali che si rifanno a precedenti neanche troppo antichi, risalenti al tentativo messo in piedi agli inizi degli anni 20 del secolo scorso e durato una cinquantina d’anni, di costituire un ‘’nazionalismo arabo’’. Un’unione fittizia, costituita su confini territoriali coloniali, dove paesi ricchi di risorse energetiche (petrolio, gas) e non solo, avevano, e tutt’ora hanno, welfare e diritti sociali arretratissimi, con una forbice di disuguaglianza amplissima.
Oggi, l’Islam resta l’unico punto di riferimento di unione in quelle zone, per questo viene utilizzato in modo identitario da soggetti politici come Daesh. Infatti, se prima in questi paesi la dicotomia “Noi-loro” era rivolta verso i paesi colonizzatori, adesso diventa molto più facile far diventare “loro” tutto il mondo non islamico, in particolare i cristiani.
Accettare questa divisione significa calarsi nella logica dell’avversario, mossa mai vincente. Anziché favorire un processo di integrazione culturale e religiosa, di attivare politiche di apertura nei propri paesi per gli usi e costumi altrui, per alcune fazioni politiche sembra più facile, anche elettoralmente parlando, accettare questa visione dicotomica dei due mondi. Quest’ultima spinge addirittura a pretendere che 5 milioni di musulmani francesi (o forse 1,6 miliardi di musulmani nel mondo) dichiarino pubblicamente la loro distanza dal terrorismo, addossando al singolo, in una forma purissima di razzismo, le responsabilità di un gruppo solo perché hanno credenze religiose comuni.

Le soluzioni che abbiamo nelle nostre mani si basano sulla costruzione di un diverso modello di integrazione, che nasca dalle lotte, che favorisca un’accoglienza effettiva dal basso, che miri a scardinare le logiche di sussistenza a favore di un percorso legato ai bisogni delle persone, ai loro interessi, legando sinergicamente le forze di chi accoglie con quelle di chi è accolto.
La chiave decisiva di questo processo è la capacità di profonda comprensione e interazione tra diverse culture. Proprio per questo bisogna, con ogni mezzo, allontanare, respingere, emarginare le derive populiste e xenofobe e informare, discutere, dibattere insieme nei nostri spazi e nelle nostre città.

FONTI DATI:
https://infosannio.wordpress.com/2014/10/14/quelli-che-vanno-a- combattere-con-lisis-perche-lo-fanno/
http://www.mediapolitika.com/dalmondo/16447-parla-tuo-figlio-dellisis-pr...