Stuprata, picchiata e sfruttata: la schiavitù del 21esimo secolo su cui si regge l’agricoltura siciliana

Mon, 13/03/2017 - 11:05
di
Lorenzo Tondo, Annie Kelly*

Ogni notte per quasi tre anni Nicoleta Bolos è restata sveglia di notte su un materasso sporco in una capanna nella provincia di Ragusa, in Sicilia, aspettando il suono dei passi fuori dalla porta. Col passare delle ore attendeva lo scricchiolio della porta che si apriva, il suono metallico di una pistola posata sul tavolo accanto alla sua testa e il peso del suo datore di lavoro posarsi sul grigio materasso sporco dietro di lei.
L'unica cosa di cui aveva paura più che del suono dei passi del contadino fuori dalla porta era la minaccia di perdere il proprio lavoro. Quindi ha resistito, notte dopo notte, a stupri e botte, mentre suo marito si ubriacava scioccato fuori dalla porta.
“La prima volta era stato mio marito a dirmi che dovevo farlo. Che il proprietario della serra dove avevamo avuto il lavoro voleva dormire con me e che se io avessi rifiutato non ci avrebbe pagato e ci avrebbe cacciato dalla sua terra", dice. "Ho pensato che fosse pazzo, ma quando ho rifiutato mi ha picchiata. Mi disse che dovevo fare tutto ciò che il nostro padrone diceva di fare perché era l’unico modo con cui potevamo tenerci il lavoro. Quando il datore di lavoro venne, mi minacciò con una pistola e disse che se mi fossi mossa mi avrebbe spappolato la testa. Quando finì se ne andò semplicemente via camminando".
La mattina dopo Bolos era di nuovo al lavoro accovacciata dietro al marito in una serra, prendendosi cura e raccogliendo il prodotto che ha fatto sì che l'Italia fosse il più grande produttore ed esportatore di frutta e vegetali in Europa. La provincia di Ragusa è la terza più grande produttrice di verdura del continente.
Durante il periodo che ha passato nella fattoria, dice Bolos, ai braccianti veniva dato un alloggio scarsamente vivibile, cibo per gatti come pasto serale e veniva rifiutata loro ogni assistenza medica. Di notte lei e le altre lavoratrici rumene diventavano intrattenimento per il contadino e i suoi amici, ripetutamente stuprate e abusate per molti anni.
“Quando sono venuta qui pensavo di averlo fatto per un lavoro duro ma decente, in un altro paese europeo, ma in realtà abbiamo finito per diventare schiavi”, dice.
Nascosti tra campi di sventolanti tendoni bianchi di plastica, attraverso la provincia di Ragusa, cinquemila donne rumene come Bolos lavorano come stagionali agricole. Il loro trattamento è uno scandalo, riguardo i diritti umani, perpetrato in quasi completa impunità.

Una forza lavoro femminile vulnerabile

Un'organizzazione italiana per i diritti dei migranti, la Proxyma Association, stima che più della metà di tutte le donne rumene che lavorano nelle serre siano forzate ad avere relazioni sessuali con i propri datori di lavoro. Quasi tutte lavorano in condizioni di lavoro forzato e pesante sfruttamento.
La polizia crede che fino a settemilacinquecento donne, la maggioranza delle quali sono rumene, stiano vivendo in schiavitù in aziende agricole in tutta la regione. Guido Volpe, un comandante dei carabinieri siciliano, ha dichiarato all’Observer che Ragusa è il centro di sfruttamento dell'isola. “Queste donne stanno lavorando come schiave nei campi e sappiamo che sono ricattate per avere rapporti sessuali con i proprietari delle aziende o delle serre, tramite soggiogamento psicologico”, dice. “Non è facile investigare e fermare tutto ciò, dal momento che le donne sono soprattutto troppo spaventate per uscire allo scoperto”.
Molte delle donne rumene lasciano a casa bambini e famiglie – che dipendono economicamente da loro – e si sentono forzate a fare scelte disperate che hanno scavato profondi solchi di dolore come sul volto di Bolos.
“Da dove vengo io nella Moldavia rumena nessuno aveva un lavoro”, dice Bolos mentre si prende cura di sua figlia di 5 mesi in un magazzino buio che adesso è la sua nuova casa, in un'altra azienda agricola nella provincia di Ragusa. “Il salario medio lì è di 200 euro al mese. Qui si può guadagnare molto di più anche se bisogna soffrire”.
L’Observer ha parlato con dicei donne rumene che lavorano in aziende agricole del ragusano. Tutte hanno subito ripetute aggressioni sessuali e sfruttamento, tra cui giornate lavorative di dodici ore in situazioni di calore estremo e senza acqua, il non pagamento dello stipendio e l’essere forzate a vivere in condizioni degradanti e non igieniche in dépendance isolate. Le loro giornate lavorative spesso includono la violenza fisica, l’essere minacciate con armi e l’essere ricattate con minacce ai propri figli e famiglie.
La professoressa Alessandra Sciurba dell’Università di Palermo è coautrice di un report del 2015 che ha documentato gli abusi che affrontano le donne rumene in Sicilia. Dice che le condizioni adesso sono addirittura peggiori.
"Le donne ci raccontano che sono costrette a migrare per assicurare ai propri figli in Romania condizioni di non completa povertà, ma che loro stesse sono costrette a sopportare condizioni terribili e abusi come”, dice. “'Non c’è altro lavoro', ci hanno detto le donne, quindi per mandare soldi a casa alle loro famiglie sentono di dover accettare queste condizioni. Ciò cui abbiamo assistito non è niente di meno che lavoro forzato e traffico umano, per come definiti dall’Organizzazione internazionale del lavoro delle Nazioni unite”.
Il Pm Valentina Botti sta seguendo numerose cause di aggressione sessuale e sfruttamento del lavoro contro proprietari di aziende agricole. Dice che gli abusi delle donne rumene sono un fenomeno di proporzioni enormi.
“Rapimenti, aggressioni sessuali e tenere le persone in schiavitù sono i tre maggiori crimini che abbiamo riscontrato nelle nostre indagini fino ad oggi”, dice.
“Stiamo parlando potenzialmente di migliaia di donne rumene vittime di seri abusi. Poche donne escono allo scoperto con le proprie storie, la maggioranza accetta gli abusi come sacrificio personale da fare se si vuole mantenere il proprio lavoro. La conseguenza di perdere il lavoro per molte di loro è devastante.
Elisa, una donna rumena di 45 anni, ha dichiarato all’Observer che ha sentito di non avere scelta quando il suo nuovo datore di lavoro l'ha sbattuta in un rifugio il primo giorno di lavoro. “Ho provato a correre via, ma lui mi ha detto chiaramente che se non lo avessi fatto me ne sarei dovuta andare”. “Erano mesi che non lavoravo, ho realizzato che se volevo stare in Italia dovevo accettarlo”.
Anche la grande crescita del numero di donne rumene che chiedono aborti in Sicilia sta allarmando i medici e le organizzazioni per i diritti umani. Secondo Proxyma mentre le donne rumene sono solo il 4% della popolazione femminile della provincia di Ragusa, sono responsabili del 20% degli aborti registrati.
“Il numero di aborti tra le donne rumene è decisamente allarmante”, dice Ausilia Cosentini, coordinatrice del Fari project, che fornisce assistenza alle donne rumene in una clinica. Dice che molte delle donne che vengono per chiedere aborti sono accompagnate dai propri datori di lavoro o da altri uomini italiani. “Anche se chiaramente non possiamo concludere che tutte queste gravidanze siano il risultato di violenza sessuale o paura di perdere il proprio lavoro, l'alto numero di aborti in relazione alle poche migliaia di donne rumene nella provincia va preso seriamente in considerazione”.
Le condizioni di lavoro sono in alcuni casi fortemente pericolose. Una giovane donna rumena ci ha detto di essersi ammalata quando è stata forzata a maneggiare e lavorare con prodotti chimici agricoli senza alcun vestiario protettivo. “Dovevo maneggiare cibi coperti di pesticidi e questo mi rendeva molto malata: tossivo e non potevo respirare”, dice. “Ero incinta, ho iniziato a sentirmi male e ho dato alla luce mia figlia quando ero solo al quinto mese di gravidanza. I dottori hanno detto che era prematura a causa del lavoro e che probabilmente avrebbe avuto danni celebrali a causa dei prodotti chimici".
Coloro che hanno denunciato i propri abusi alle autorità dicono che spesso, in seguito, non hanno più avuto possibilità di trovare lavoro altrove. “Lavoravo con mio marito nelle serre e il datore di lavoro voleva dormire con me”, dice gloria, 48 anni. “Mi sono rifiutata e mi ha licenziato. L'ho denunciato alla polizia ma da allora non riesco a trovare lavoro. Gli altri proprietari di aziende sanno che sono andata alla polizia e non vogliono che lavori per loro”.
Alla fine i calvari notturni sono diventati troppo per Nicoleta Bolos. È fuggita dalla fattoria e da suo marito, rimanendo senza lavoro e senza possibilità di inviare denaro a casa ai suoi giovani figli in Romania. Nel tempo necessario ai suoi amici per raccogliere denaro sufficiente a comprarle un biglietto del bus per tornare a casa, aveva perso la custodia legale di entrambi i figli. Ora vivono con lo zio del suo ex marito e lei non è autorizzata ad avere alcun contatto con loro. Quindi nonostante gli abusi è tornata a lavorare a Ragusa, affrontando un viaggio di cinquanta ore in bus da Botosani, in Romania, fino alla Sicilia e alle serre.

L’economia locale si poggia sul lavoro migrante

Le possibilità di lavoro precario nei campi nella provincia di Ragusa sono molte. Negli ultimi anni le esportazioni italiane di frutta fresca e verdura sono cresciute e attualmente valgono circa 366 milioni di euro all'anno. Molti di questi prodotti sono coltivati nelle cinquemila fattorie della provincia di Ragusa.
L'agricoltura italiana per molti anni si è appoggiata pesantemente sul lavoro dei migranti.
Un’associazione di agricoltori, la Coldiretti, stima che nel sud d'Italia circa 120mila migranti lavorano nel settore. Dopo anni di accuse di sfruttamento e una conseguente stretta da parte del governo italiano, gli agricoltori siciliani , che prima - riempivano le proprie terre con migranti senza documenti e rifugiati arrivati via mare – si sono rivolti ai lavoratori che si muovono da dentro l'Unione europea. Il numero di donne rumene che viaggiano per lavorare in Sicilia è aumentato enormemente durante l'ultimo decennio. Secondo i numeri ufficiali solo trentasei donne rumene lavoravano nella provincia di Ragusa nel 2006, arrivando a più di cinquemila ora. E quest'anno le rumene hanno superato le tunisine come gruppo più grande.
“I proprietari delle Serre oggi hanno paura di essere perseguiti per aver facilitato la migrazione illegale, per via dell’assunzione di migranti senza documenti”, dice Giuseppe Scifo, un sindacalista della Cgil. “Quindi i nuovi target per lo sfruttamento sono i cittadini europei che accettano salari bassi a causa della situazione disperata nei loro paesi di origine”.
Gianfranco Cunsolo, presidente della Coldiretti a Ragusa, dice che non c’è altra possibilità che pagare salari bassi. “Lo sfruttamento dei lavoratori a Ragusa è anche la conseguenza delle politiche dell'Unione europea”, dice. “Non voglio giustificare le azioni dei contadini e dei proprietari delle serre che pagano salari bassi ai lavoratori migranti, ma queste persone spesso hanno la sensazione di non avere alternativa alcuna se devono competere con altri mercati europei”.
“Quando parliamo di abuso sessuale delle lavoratrici ovviamente non c'è scusa. Le persone che lo fanno devono essere arrestate e imprigionate. Le donne sono benvenute a lavorare qui a Ragusa e devono essere trattate alla pari. Noi condanniamo completamente questa situazione”.
Per la legge italiana i proprietari delle aziende agricole devono fornire ai lavoratori stagionali contratti ufficiali e un salario giornaliero di 56 euro per una giornata di otto ore di lavoro. Tuttavia le donne rumene che arrivano in Sicilia spesso trovano una realtà molto più brutale.
“Le donne rumene sono pagate tre volte meno il salario richiesto dalla legge e molte di loro lavorano in nero”, dice Scifo. Molte delle donne intervistate dall’Observer dicono di essere raramente pagate più di 20 euro al giorno.
L'incentivo politico o economico, per le autorità, per intraprendere azioni volte a terminare gli abusi, è molto piccolo. Nonostante la polizia dica che hanno dozzine di denunce pendenti e processi aperti, solo un agricoltore fino ad ora è stato accusato e condannato per aver abusato di donne rumene.
“Il problema”, dice Scifo, “è che gli agricoltori non sono uomini ricchi. Se i proprietari pagassero ai lavoratori gli stipendi secondo la legge, perderebbero troppo denaro e l'intera economia agricola della provincia imploderebbe. Questo è il motivo per cui le autorità guardano dall'altra parte e per cui è così difficile che qualcuno intraprenda azioni per fermare tutto ciò”.
Tentativi di portare alla luce la questione in Parlamento si sono arenati. Nel 2015 la deputata Marisa Nicchi lanciò un'inchiesta parlamentare sulla schiavitù tra i lavoratori rumeni a Ragusa e chiese al primo ministro di far partire un’indagine. “Sono passati due anni e il governo italiano non ha ancora intrapreso alcuna azione”, dice dal suo ufficio parlamentare a Roma, “ma non ci arrendiamo. Questi crimini devono finire”.
A Ragusa i politici locali dicono che stanno cercando di fornire servizi alle donne rumene che subiscono abusi. Giovanni Moscato, che lo scorso giugno è diventato sindaco di Vittoria, una città nella parte ovest della provincia di Ragusa, dice che lo sfruttamento persiste perché troppi interessi economici continuano ad essere presenti attualmente, ma che la città sta aprendo un ostello come rifugio per le donne rumene in fuga dai datori di lavoro violenti.
Da quando è tornata in Italia Nicoletta Bolos ha incontrato un uomo rumeno e ha avuto altri due figli. Ha denunciato il suo precedente datore di lavoro alla polizia e l'uomo è accusato di sfruttamento lavorativo, ma il suo caso non è ancora arrivato a processo. Ora dice che è stanca degli abusi e ha deciso di denunciare pubblicamente la sua storia, nel tentativo di trovare giustizia per se stessa e altre donne rumene imprigionate in una rete di sfruttamento e impunità. Tenendo la sua bambina in braccio, e sedendo su una sedia di plastica mezza rotta, parla gesticolando nella sua casa. Le mura sono sporche di muffa e non c'è riscaldamento o acqua corrente.
“Guardate come viviamo. Ma questa è la nostra vita, qui. Non perderò i miei bambini di nuovo. Loro sono la ragione per la quale ho passato tutto questo, per la quale sono diventata schiava”, dice. “È stato per loro che ho dovuto lasciar entrare quell'uomo nel mio letto ogni notte. Ora voglio che la gente sappia che tutto questo sta succedendo. E che deve finire”.

Alcuni nomi sono stati cambiati per proteggere le identità.
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*Fonte: The Guardian.

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