La triste e vergognosa morte di Sandrine, giovane donna ivoriana, avvenuta nel centro di accoglienza di Cona, a seguito di una crudele agonia lunga oltre ventiquattro ore nel completo disinteresse del management della cooperativa che gestisce la struttura, dovrebbe nuovamente indurre una riflessione, almeno in quella parte sana di società che ancora resiste, sulle storture di un sistema di prima e seconda accoglienza più tendente a garantire profitti ad un certo tipo di terzo settore che un percorso di vera inclusione sociale ai e alle migranti, e magari su fattibilissime soluzioni alternative incentrate sull'autogestione.
A questo proposito in Italia esistono tantissime esperienze solidali e virtuose che andrebbero raccontate e diffuse il più possibile. Noi iniziamo con una barese che potrebbe offrire qualche spunto.
In città, ormai da anni, si contano diverse vertenze abitative messe in campo da soggetti migranti. Questo soprattutto per la presenza di un Cara, gestito dalla cooperativa Auxilium (i cui vertici sono coinvolti nell'inchiesta Mafia Capitale), e di conseguenza di diverse comunità rimaste sul territorio. Nello specifico l'occupazione dell'ex-monastero di Santa Chiara (già luogo di rifugio per gli esuli greci durante la dittatura dei colonnelli), avvenuta nel febbraio 2014 da parte di un nutrito gruppo di rifugiati giunti a Bari a seguito della fase “emergenza Nord-Africa”, ha innescato un processo di lotta e rivendicazioni che ha portato dei risultati non trascurabili.
Il monastero di Santa Chiara, ribattezzato Casa del Rifugiato, ha ben rappresentato un'idea di accoglienza autorganizzata. Ogni migrante presente (ad un certo punto quasi duecento), disponeva di uno spazio vitale adeguato, e poco alla volta anche di servizi primari. Tutte le decisioni riguardanti lo spazio e la vita comune venivano prese in maniera assembleare. Lo sgombero della struttura da parte del Comune e lo spostamento dei migranti all'interno della fatiscente tendopoli sita nei capannoni dell'Ex-Set hanno segnato un evidente peggioramento delle condizioni di vita dei migranti. La soluzione, che sarebbe dovuta durare un mese, si è protratta per oltre un anno.
In quel periodo i migranti, nonostante una situazione di grande precarietà e di condizioni di vita infime all'interno della tendopoli comunale, mantenendo una grande compattezza e lucidità sono riusciti a rivendicare, in maniera conflittuale, la soluzione abitativa che ritenevano migliore per sé stessi, ovvero la possibilità di tornare ad utilizzare una struttura pubblica abbandonata in affidamento, rifiutando categoricamente, a più riprese, la proposta che l'amministrazione comunale avanzava: un ghetto di container in Largo Pacha (estrema periferia a nord della città, a pochi passai dalla tendopoli della Croce Rossa) finanziato con 1 milione e 600mila euro di fondi europei.
Nel frattempo le disumane condizioni dell'ex Set divenivano di dominio pubblico, anche grazie alla solidarietà e al sostegno dell'associazione Solidaria (che seguiva la vertenza sin dall'occupazione di Santa Chiara), delle persone del quartiere Libertà e alla denuncia di Cecilia Strada e di Emergency che ha proiettato la vicenda sulla stampa nazionale. Le continue proteste dei migranti e le immagini dell'ex-Set ormai virali hanno costretto il Comune a riaprire Villa Roth, stabile già precedentemente occupato a scopo abitativo/sociale e successivamente sgomberato. In un primo momento vi sono entrati solo nuclei famigliari e anziani.
A seguito della chiusura definitiva dell'ex-Set, il 20 aprile 2016, i migranti che ancora vi vivevano sono stati collocati in due strutture che, possiamo dire senza ombra di dubbio, simboleggiano una vera e propria dicotomia. Alcuni hanno raggiunto Villa Roth, altri sono stati spostati presso Villa Ata, a Palese, in attesa della costruzione del ghetto di container.
Se Villa Ata rappresenta il classico sistema di seconda accoglienza, gestita da un'associazione che percepisce dieci euro a ospite al giorno, non garantendo nemmeno un reale percorso di inclusione sociale e lavorativa, Villa Roth è un modello unico nel suo genere, che dimostra come l'autogestione possa essere la soluzione.
Attualmente Villa Roth ospita venticinque migranti e quindici nativi che autogestiscono totalmente lo spazio. Vale la pena evidenziare che non si tratta di un ghetto di container, ma di una casa vera e propria. Non si registrano problemi interni di convivenza e nemmeno con l'esterno. Le uniche difficoltà, in tal senso, derivano dalle continue provocazioni di partiti di estrema destra.
Gli abitanti di Villa Roth hanno il pieno controllo delle proprie vite e possono così dedicarsi alla ricerca di un lavoro, allo studio, a conoscere la città. Non sono relegati in periferia, non devono chiedere il permesso a nessuno per uscire ed entrare. Possono insomma guardare al futuro con un briciolo in più di serenità. L'amministrazione, dal canto suo, risparmia notevoli risorse che non finiscono nel business di quel tipo di terzo settore di cui i migranti stessi sono le prime vittime.
E allora, il Comune di Bari intende replicare il modello di Villa Roth?
Purtroppo la risposta non è così semplice, è molto legata all'ignobile contesto nazionale che vede destra e M5S speculare sulla paura, la disinformazione e l'ignoranza, fomentando un clima di razzismo “di pancia”, e il governo inseguire Salvini e Grillo sul loro terreno, consolidando quelle politiche di razzismo “istituzionale” che ad oggi fanno esprimere il ministro Minniti a sostegno di una non meglio precisata necessità di riaprire dei lager per migranti quali i Cie, e che lasciano che a dirimere l'immigrazione sia ancora una legge bestiale come la Bossi-Fini.
Mentre scriviamo l'amministrazione sembra aver del tutto abbandonato il progetto dei container in Largo Pacha. Il sindaco Decaro avanza l'idea di trovare altri spazi pubblici abbandonati in sostituzione. Certamente su questa svolta ha molto pesato l'ottima sperimentazione di Villa Roth, ma anche l'operazione speculativa della destra cittadina, che ha sollevato il malcontento degli abitanti del quartiere dormitorio che avrebbe dovuto ospitare i container. A questo proposito va ricordato che le condizioni di estremo disagio che vivono le periferie baresi e non solo sono dovute al totale abbandono e alla mancanza evidente di servizi pubblici e welfare, frutto delle politiche antisociali e neoliberiste degli ultimi decenni.
In una realtà ideale, un'amministrazione comunale di sinistra avrebbe rilanciato sin da subito e pubblicamente l'esperienza di Villa Roth, marginalizzando ogni eventuale tentativo di sfruttamento razzista della destra (che a Bari, fortunatamente, ha ben poca capacità di incidere politicamente e socialmente). Invece, a livello istituzionale, si cerca di farla passare sotto silenzio, nonostante tutto. C'è un timore reverenziale nel promuovere qualcosa che funzioni, perché non rispecchia la linea nazionale di Governo e Partito Democratico. Negli ultimi decenni si sono alimentati istinti xenofobi e discriminatori, producendo politiche di “razzismo democratico”, quali leggi come la Turco-Napolitano, l'istituzione di Centri di Permanenza Temporanea, poi Cie, e così via.
Promuovere esperienze in autogestione a scopo abitativo per nativi e migranti non soddisfa le richieste dell’imprenditoria sociale, che anzi, vede in sperimentazioni come Villa Roth, o come tante altre in giro per l’Italia, un pericolo per i propri profitti, dal momento che rilanciano un'idea di accoglienza fuori dal controllo del mercato, volta all'inclusione sociale e al superamento della fase di “emergenza”.
A tutto questo va aggiunto l'aspetto più importante: Villa Roth non è stata il frutto naturale delle politiche di welfare comunali, e tanto meno una generosa elargizione da parte di un sindaco illuminato. È invece, come detto, il risultato di un percorso lungo di lotta e rivendicazioni conflittuali che ha visto i soggetti migranti presenti in città unici e veri protagonisti. Sono stati loro, i “diretti interessati”, a dare battaglia, senza cedere mai, sostenendosi l'uno con l'altro, muovendosi sempre compatti, e a seguito di decisioni assembleari. Sono stati loro, insomma, a fare “Politica”, con la P maiuscola, quella che nasce dall’autorganizzazione sociale.
Le istituzioni hanno reagito in maniera scomposta a questa presa di parola dei “diretti interessati”. Abbiamo toccato con mano il “razzismo democratico”, che molte similitudini ha con il classismo, che vede i migranti, ma più in generale i subalterni, come soggetti sfortunati da aiutare caritatevolmente, ma solo finché restano con la testa bassa, in silenzio, a ringraziare. Quando si sollevano, reagiscono, rivendicano la propria libertà, cade anche ogni maschera perbenista.
Il compito delle realtà antirazziste e associative, quelle che promuovono l’autodeterminazione dei popoli e la democrazia consiliare, pratiche che hanno nella Comune di Parigi o nella rivoluzione spagnola del ’36 alcuni punti di riferimento, dovrebbe essere sempre quello di sostenere le rivendicazioni dei soggetti migranti, ma mai sostituirsi ad essi, lasciando che siano sempre loro a decidere il da farsi. Ad esempio, leggere con loro una delibera, tradurla in inglese, analizzarla insieme, ma zittirsi quando c'è da discutere sulle posizioni da avere in un incontro con le istituzioni. Del resto, non si può rivendicare per loro l'autogestione, se noi siamo i primi a non rispettare quel principio. E, peraltro, in molti casi c'è solo da imparare.