[Precarietà a tempo indeterminato/4] La classe probabile

Thu, 17/07/2014 - 16:32
di
Lidia Cirillo

1.Marx e la dimensione attiva della classe

Quella sulla classe è una delle tre grandi discussioni che Communia dovrebbe affrontare; le altre riguardano lo Stato e le forme di organizzazione con cui il proletariato si è fatto e potrebbe tornare a farsi classe. Il seminario è stato concepito come seguito degli interventi comparsi sul sito e come momento di confronto tra riflessioni individuali che non hanno avuto finora occasioni di effettivo contatto. Un solo incontro non sarà sufficiente, ma sarebbe già una conquista se riuscissimo a istruire la pratica di discussioni prossime venture sul tema e a rendere più chiara la posta in gioco politica della soluzione del nodo teorico.
E’ inevitabile cominciare con alcune considerazioni a proposito degli interventi comparsi sul sito. Un certo numero di essi allude a un’assenza: la classe perduta, la classe che non c’è, la classe di cui cercare le tracce... Dal momento che non posso farmi interprete del pensiero altrui e non sono nemmeno certa che diciamo le stesse cose, cercherò di dire che cosa significa dal mio angolo di visuale l’assenza.
Dire che si avverte drammaticamente l’assenza di una classe significa a) riprendere un filo rosso del pensiero di Marx, che è poi il più visibile del suo lavoro di intellettuale e di militante. Più volte il Moro esprime la convinzione che una classe è classe, se è capace di pensare e di agire come tale: nell’ Ideologia tedesca afferma che i diversi individui formano una classe, quando devono portare avanti una battaglia comune contro un’altra classe; in una lettera a Kugelmann parla del suo programma come un mezzo per agevolare la trasformazione degli operai in classe; nel 18 Brumaio, riferendosi ai contadini piccoli proprietari in Francia scrive che sono una classe ma non sono una classe. Formano infatti una classe perché vivono in condizioni economiche che distinguono i loro modi di vita, i loro interessi, la loro cultura da quelle di altre classi e si contrappongono a esse in modo ostile. Non formano invece una classe perché non costituiscono una comunità e non sono in grado di esprimere un’unione e un’organizzazione politica.
Certo Marx dice anche altre cose: distingue per esempio “classe in sé” e “classe per sé”, concetti che però a un certo punto abbandona; usa il termine classe anche quando parla dell’operaio “bestia da soma” e “anima abbrutita”, prima che la “prassi sovvertitrice” lo riscatti.
Questa utilizzazione anfibia di un concetto non cancella le numerose affermazioni in cui Marx pensa la classe come qualcosa di vivo e attivo, in sintonia del resto con la sua pratica militante. Egli infatti individua nella classe operaia industriale la protagonista del conflitto contro la divisione della società in classi perché, quando decide di unirsi a essa, gli operai già sostengono da decenni durissime lotte. Solo più tardi si mette alla ricerca di criteri e di logiche. Di questa ricerca Marx non venne mai a capo, anche perché la morte gli impedì di realizzare il suo proposito di elaborazione di una teoria delle classi.
La difficoltà ad afferrare e circoscrivere la classe, quando essa stessa non si percepisce come tale, è testimoniata tra l’altro dalle incertezze di Marx sull’attribuzione dell’appellativo di classe ai diversi gruppi sociali, che Bertell Oldman documenta in un articolo. E’ possibile una lotta di classe senza classe, senza una classe capace di costituire una comunità, un’unione e un’organizzazione politica, cioè senza una vera classe? Per Marx evidentemente sì, dato che considera la lotta di classe una costante della vicenda umana, anzi la forza dinamica stessa della storia. E d’altra parte pensa gli operai dell’industria come la prima classe della storia capace di agire come classe e quindi di essere compiutamente classe;
b) riferirsi alla classe in termini di assenza significa che, almeno in discussioni come questa e ai fini della comprensione, alcune distinzioni sono utili. Per esempio quella tra proletariato e classe o tra classe operaia e movimento operaio. La prova dell’utilità è nella confusione che generano talvolta le omonimie. Per esempio quando si risponde che la classe operaia e le sue lotte esistono ancora, la deindustrializzazione è un’interpretazione semplicistica della realtà e i dipendenti dei servizi sono spesso operai e operaie esternalizzati. Come se non lo sapessimo e fossimo stati colti da forme di Alzheimer collettivo.
Il problema è di tutt’altra natura. E’ che, almeno a guardare all’esperienza del Novecento, la “classe in sé” ci dice ben poco della “classe per sé”, se proprio vogliamo continuare ad usare formule che a un certo punto Marx ha abbandonato e che per Bensaid sono un’illusione idealistica. Detto in altre parole il disegno di una topografia del proletariato in sé ci mostrerebbe solo l’esistenza di un vastissimo territorio ma non dove e come in quel territorio può manifestarsi una classe, né quale ne sarebbe l’identità. Insomma nessuna definizione strutturale della classe può risolvere il problema della sua formazione. Le modalità con cui le classi subalterne della storia contemporanea hanno partecipato al conflitto sociale sono state molteplici, diverse e fortemente condizionate dai contesti storici. I due modelli a cui la sinistra radicale si è tradizionalmente ispirata si sono rivelati la riduzione a paradigma di eventi storici irripetibili o che comunque non si sono ripetuti. Mi riferisco al modello dell’autoemancipazione di una classe secondo Marx e nell’esperienza della Prima Internazionale e al modello di una classe capace di produrre una forte autorganizzazione con cui guidare il partito e lasciarsi guidare dal partito nella circolarità virtuosa del 1917.
Questi eventi sono stati ovviamente fondamentali perché hanno creato le condizioni degli eventi successivi, ma le modalità con cui il lavoro subalterno si è fatto classe sono state sempre diverse.
Lo stesso proletariato di fabbrica – stesso per funzione nel processo produttivo, per organizzazione del lavoro e livelli di concentrazione – avrà in contesti storici diversi comportamenti radicalmente diversi. Nel 1917 la profezia di Marx sembra avverarsi, ma nel contesto eccezionale di un proletariato forte e di una borghesia debole, che non ha ancora costruito le condizioni del proprio dominio. Negli Stati Uniti, dove vige la gerarchizzazione razzista del lavoro salariato, potrà nello stesso tempo sostenere straordinarie lotte sindacali e votare per la destra razzista del partito repubblicano. In Italia aprirà alla fine degli anni Sessanta una stagione riformista sotto l’occhio preoccupato e vigile degli apparati sindacali e del PCI.
Non solo la stessa classe ha comportamenti diversi, ma la stessa classe può essere sostanzialmente diversa. Marx ne conosce non una ma due: la classe operaia di origine artigianale sussunta al capitale in Francia ancora solo formalmente e con maggiori capacità di autorganizzazione; la classe operaia oggetto di una sussunzione reale in Inghilterra che già aveva cominciato a produrre una robusta burocrazia sindacale. Inoltre il proletariato non ha abitato solo i luoghi della produzione industriale: tra gli eventi che hanno costruito il movimento operaio del Novecento ci sono state anche la rivoluzione cinese e cubana, in cui le classi protagoniste poco hanno a che fare con quelle che costruirono la Comune o presero il Palazzo d’Inverno.
Quanto la riduzione a paradigma di eventi tradisca la realtà si può immaginare davvero solo se si tiene conto che, se già nel Novecento la formazione e i comportamenti della classe sono stati differenti e mutevoli, ancora più lo saranno di fronte ai cambiamenti degli ultimi decenni. Tra questi la dissoluzione della costruzione storica che abbiamo chiamato “movimento operaio”. Torno sull’argomento perché mi sono resa conto che compagne e compagni più giovani spesso intendono la formula in analogia con altre dello stesso tipo. “Movimento studentesco” significa movimento di studenti e “movimento delle donne” significa appunto movimento di esseri umani di sesso femminile. Nella formula “movimento operaio” il secondo termine ha finito per indicare una genesi, enfatizzando così solo una delle componenti di una più complessa costruzione (il termine qui non è usato in senso post-moderno ma indica una serie di forze e di interessi materiali). Si è chiamato “movimento operaio” l’insieme sinergico che in Europa e nel mondo aveva costretto il capitale a cambiare per non morire e quell’insieme aveva solo in parte a che fare con una classe. Certo la classe operaia, soprattutto quella dei grandi complessi industriali, era stato il nucleo intorno al quale si era poi aggregato tutto il resto. Ma il prodotto finale era stata una costruzione storica, sociopolitica e culturale dai confini incerti, fortemente differenziata e conflittuale al proprio interno ma appunto sinergica. Essa era composta da una classe di notevole forza strutturale e capace di farsi centro del conflitto sociale; da strutture burocratiche e clientelari, che concedevano agi e poteri ai settori della piccola borghesia più ambiziosi e dinamici; da entità statali con il loro potere economico e militare; da movimenti di liberazione di paesi colonizzati, interessati a mettersi sotto l’ala protettrice dell’Unione Sovietica e che talvolta si avventuravano nella creazione di socialismi nazionali più o meno credibili; da socialdemocrazie che mantenevano aperti gli spazi in cui i rivoluzionari potevano continuare ad agire e da rivoluzionari che punzecchiavano ai fianchi le socialdemocrazie e gli apparati sindacali, costringendoli a scatti per recuperare i rapporti con la propria base sociale; da intellettuali creativi attratti dai miti progressivi costruiti sulle vicende rivoluzionarie del secolo; da mobilitazioni occasionali e da spessi sedimenti organizzativi, da elettorati fedeli, da compagni di strada e alleati…. Ora gran parte delle componenti di questo insieme o non esiste più o ha mantenuto nomi a cui non corrispondono le stesse realtà oppure ha subìto dinamiche di disaggregazione, che hanno isolato ciascuno dei pezzi residui. Significa essere privi di qualsiasi criterio materialistico di giudizio credere che l’enorme distruzione di forze materiali prodotte dalla disgregazione del movimento operaio del Novecento abbia lasciato poi intatti paradigmi, immaginari, discorsi, simboli e aspettative.

2. Il vasto territorio della classe del XXI secolo

Se ci limitassimo a fare i conti solo con la storia e prendessimo soltanto atto della diversità dei modi in cui il proletariato ha manifestato la propria presenza, oggi saremmo in una notte in cui tutti i gatti sono neri. Non avremmo cioè alcuna immagine dell’identità della “classe probabile”, come la chiama Bourdieu. Non ci resterebbe che la pratica del tutto empirica di essere là dove siamo o dove c’è qualcosa già in movimento. Nella realtà è quello che facciamo, ma solo per i limiti delle nostre forze; la pratica empirica dovrebbe però essere accompagnata dalla consapevolezza che le lotte attuali e le loro logiche possono esaurirsi senza un seguito e che altri gruppi sociali, altre dinamiche di soggettivazione senza relazioni con le attuali possono entrare in gioco e con maggiore efficacia. Serve allora individuare Dove sono i nostri, come dal libro dei Clash City Workers. Ma chi è un proletario e che cosa è il proletariato oggi? Individuarlo non è un’operazione di scienza esatta e non sono sufficienti letture attente di documenti dell’ISTAT e di altre istituzioni. Non si tratta insomma di un’operazione neutra perché la scelta dei criteri è necessariamente di parte. Esiste un criterio per pensare la classe, quando non è classe, non pensa e non agisce come classe? Non perché si possa immaginare una “classe in sé” come corpo inerte ma perché dei processi di formazione di una classe si possono mettere in rilievo le determinazioni oggettive.
Se ancora una volta si guarda a Marx, si noterà che quando si riferisce a una concreta figura storica i proletari sono gli operai di fabbrica. Quando invece elabora concetti che possono avere la funzione di criteri, allora l’orizzonte si allarga fino al punto di rendere intellegibile l’ampiezza degli attuali processi di proletarizzazione. Il proletario infatti è un lavoratore libero ma costretto per sopravvivere a mettersi sul mercato come una merce qualsiasi e a vendere la propria forza lavoro, cioè l’insieme delle sue attitudini fisiche e intellettuali. Già ai tempi di Marx questa condizione non riguardava solo la classe operaia di fabbrica ma altri gruppi sociali, per esempio gli impiegati del settore privato che spesso, come si direbbe oggi, non arrivavano alla fine del mese. A conferma della natura politica della nozione di classe in Marx, a cui interessa la parte del lavoro subalterno più dinamica e attiva e che meno si identifica nei valori della borghesia. Nel corso del Novecento è poi cresciuto il numero degli impiegati di banca e di compagnie assicurative, di operatori di questo e quel settore che producono direttamente ricchezza. La produttività del lavoro non è il criterio per individuare “dove sono i nostri”, ma non è del tutto irrilevante nei processi di formazione che si realizzano prima di tutto attraverso il conflitto. I lavoratori dei settori produttivi hanno infatti avuto a disposizione nel Novecento l’arma dell’interruzione della produzione di plusvalore, che in alcuni momenti è apparsa al capitale particolarmente temibile. Le delocalizzazioni, la compressione dei diritti sindacali, il crumiraggio organizzato sotto l’egida del razzismo istituzionale, la precarietà ecc. devono servire anche a disinnescarla.
Marx però dice anche di più in una di quelle incursioni nel futuro che sembrano profetiche, ma che rivelano solo la capacità di individuare le logiche proprie del modo capitalistico di produzione. Dice cioè che la valorizzazione del capitale non si realizza solo con il lavoro immediato, ma con la combinazione dell’attività sociale. Per comprendere gli attuali fenomeni di proletarizzazione si può utilizzare anche il concetto, sempre generosamente offerto dal Moro, di sussunzione. La sussunzione reale o sostanziale o effettiva, o come si preferisce chiamarla, è il processo attraverso il quale il capitale non solo sfrutta, appropriandosi di parte del lavoro ma anche organizza, parcellizza, rende appendice della macchina, impone forme di cooperazione di cui mantiene i fili e che spesso non fanno parte dell’esperienza diretta di lavoratrici e lavoratori. Penetrando sempre in nuovi ambiti il capitale ha prodotto una proletarizzazione di vaste dimensioni con ragioni complementari e manifestazioni diverse.
Si è sviluppata in Asia e in America Latina una forte classe operaia, che si è fatta di recente sentire nella zona meridionale della Cina, la cosiddetta Fabbrica del Mondo, con una delle numerose lotte su cui esiste una vera e propria congiura del silenzio. Fenomeni di altra natura sono visibili nei paesi a capitalismo tardivo, in cui per altro continua a esistere e spesso anche a lottare un gran numero di operai dell’industria.
In questa parte del mondo la proletarizzazione si è realizzata con la riduzione alla condizione proletaria di compiti e funzioni che godevano in passato di una relativa indipendenza e che hanno acquisito le caratteristiche già imposte altrove al processo lavorativo, cioè parcellizzazione, cooperazione esterna all’esperienza dei cooperanti, rapporto subalterno con una macchina e con un sistema di macchine. Anche la crisi ha contribuito a estendere la proletarizzazione, mettendo in difficoltà l’ex-ceto medio, che spesso non solo vive e lavora in condizione proletaria ma si percepisce come proletario contrariamente al travet della prima parte del secolo scorso. Tutte e tutti proletari allora? Proprio tutti-tutti no, ma certo tantissimi, se per esigenze cognitive si accetta di distinguere tra proletariato e classe.
Il problema per dirla con in compagni di Connessioni Precarie è che assistiamo a una paradossale sconnessione tra proletariato e classe e siamo di fronte a una realtà che impedisce di spazializzare la classe in un’immagine indicativa e identificativa. La decomposizione del movimento operaio del Novecento, la sparizione delle grandi concentrazioni operaie, la disarticolazione del processo produttivo, la nuova stratificazione di classe con il moltiplicarsi di inedite figure produttive, la precarizzazione del lavoro rendono oggi assai difficile la ricostruzione di identità collettive.
La precarietà è figlia primogenita di questo stato di cose, l’effetto voluto e programmato degli esiti del conflitto di classe del secolo scorso. Il lavoro subalterno è stato sempre caratterizzato da un alto livello di precarietà; un vero e proprio diritto del lavoro e un welfare capace di garantire coperture si sono affermati in Europa solo dopo la seconda guerra mondiale, anche se elementi dell’uno e dell’altro si trovano distribuiti qua e là nel periodo precedente.
La stabilizzazione non è stata l’effetto di lotte contro la precarietà, le quali ovviamente ci sono già state ma in se stesse avrebbero ottenuto ben poco, se non avessero avuto alle spalle i rapporti di forza dei tre decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Rapporti che non sono stati solo il prodotto della forza strutturale dei lavoratori della grande industria e del bisogno di forza lavoro del capitale. Sono stati decisivi nel determinarli ragioni di carattere politico, culturale e perfino militare. Si può dire, con una battuta non troppo lontana dalla realtà, che la stabilizzazione ha qualcosa a che fare con le lotte di liberazioni e le rivoluzioni successive alla guerra.
La femminilizzazione del lavoro e l’immigrazione non semplificano le cose perché rendono anche più complessi i problemi di connessione tra le figure della produzione sociale, ma sarebbe davvero superficiale attribuire le divisioni ai pregiudizi razzisti dei lavoratori. E non perché non esistano, ma perché sessismo e razzismo in funzione del minor costo della forza lavoro hanno un’origine specifica. Essi vengono costruiti e riprodotti non solo dal complesso delle istituzioni proprie del capitale, ma anche dall’adattamento a uno stato di cose delle organizzazioni che dovrebbero difendere il lavoro salariato nel suo complesso. Le leggi che mettono gli immigrati nell’impossibilità di difendersi dallo sfruttamento inducono il lavoratore locale a intendere la presenza dell’immigrato, disposto a vendersi a un prezzo più basso, semplicemente come crumiraggio ma, se non si mette in moto una lotta comune, l’intervento di forze politiche trasforma poi le reazioni di ostilità in adesione a discorsi e pratiche autenticamente razziste e xenofobe. Da questo punto di vista molto insegnano le modalità con cui l’estrema destra in Francia ha conquistato parti consistenti dell’elettorato operaio un tempo legate al PCF.
Per le donne l’inclusione subalterna e precaria nel mercato del lavoro fa leva su una naturalizzazione dell’attività di riproduzione (che non è solo e soprattutto riproduzione biologica) in un contesto in cui esisterebbero tutte le condizioni materiali e culturali della condivisione e della socializzazione. In una composizione del proletariato in cui immigrati e donne hanno una così consistente presenza, la lotta politica e culturale contro sessismo e razzismo è semplicemente lotta di classe. L’omofobia è meno direttamente legata all’appropriazione di plusvalore, ma questo non vuol dire che le sia estranea. L’interesse dei possessori di capitale a mantenere in vita istituzioni conservatrici (la famiglia, la Chiesa, la monarchia ecc.) in funzione di controllo politico ne consente la permanenza anche se ne differenzia lo spessore secondo le storie, le tradizioni, le influenze religiose, le egemonie politico-culturali.
In questo stato di cose appare davvero problematico individuare le dinamiche capaci di trasformare questo proletariato in classe. Tra l’altro non siamo in grado di capire quale sua articolazione possa nel prossimo futuro esprimere la forza centripeta esercitata nel Novecento dall’organizzazione sindacale e politica della classe operaia industriale. Non condivido l’obiezione che la disarticolazione del processo lavorativo renderebbe inattuale e inutile la ricerca di un centro (uno nuovo o ancora quello vecchio) e di una figura socialmente più matura. Certo non è nostro compito metterci sulle tracce del nucleo centrale della classe probabile e nulla può garantire che esso esista davvero. Tuttavia ci sono due buone ragioni per non escludere dall’indagine questa preoccupazione. La prima è che non tutte le schegge del conflitto sono uguali e hanno alla base lo stesso potenziale di mobilitazione e di resistenza. La concentrazione in un luogo di lavoro per esempio rappresenta ancora oggi un elemento non trascurabile di forza, anche se si tratta (per motivi di cui abbiamo già discusso) di una forza in gran parte solo un potenziale. La seconda ragione è che appare improbabile, anzi direi antropologicamente poco credibile, che una serie di schegge inneschino contemporaneamente e spontaneamente una dinamica convergente. Il rimando alla questione dell’organizzazione politica sarebbe in questo caso improprio, salterebbe cioè un passaggio perché una forma di organizzazione con la forza necessaria a sostenere lo scontro con il capitale e con le sue istituzioni ha come condizione necessaria una classe capace di darsela e di riconoscerla.
Siamo di nuovo alla notte in cui tutti i gatti sono neri? Siamo cioè anche noi di fronte a una “moltitudine” solo con segno cambiato, negativo invece che positivo? Questo seminario serve proprio a discutere se esistono nella realtà processi e dinamiche che vanno nella direzione della formazione di una classe.

3. Le variegate e differenti dinamiche di soggettivazione

Coloro che soffrono il dominio capitalistico non hanno in realtà mai smesso di lottare, ma non per questo oggi formano una classe. Le membra sparse di Orfeo continuano a cantare, ma le loro voci non fanno un coro. Non si tratta solo di una mancanza di connessioni, che è prima di tutto un sintomo. Quando un intero mondo si sgretola, le conquiste di civiltà di quel mondo vengono dimenticate e tra queste appunto l’esigenza di connettersi. Ricominciare dalle lotte è il modo più coerente per continuare a svolgere quel filo rosso della ricerca di Marx, con l’evidente difficoltà che in Italia le cose in movimento sono spesso reciprocamente invisibili. Gli stessi nodi di Communia si conoscono poco e parlano talvolta anche lingue diverse perché nei diversi ambienti di lavoro si sono cristallizzati le vulgate e i linguaggi della cultura antagonista che ha in quell’ambito un più strutturato intervento militante e una maggiore capacità di raccontarlo.
Alle lotte bisogna rivolgere le prime domande. Chi ne sono i protagonisti? Quali rapporti hanno con istituzioni e apparati sindacali? Quali e in quale misura tendono ad autorganizzarsi? Quale significato bisogna attribuire all’autorganizzazione: è un modo obbligato di reagire nel contesto di una complessiva regressione oppure è il segno di una composizione di classe più capace di autoemancipazione rispetto a quella che ha caratterizzato il movimento operaio del Novecento. O in misura diversa entrambe le cose? Nello sterminato territorio del proletariato del XXI secolo emergono figure socialmente più mature, a cui sarebbe giusto indirizzarsi come alla fine degli anni Sessanta agli operai della grande e media industria? Oppure la classe probabile si identifica semplicemente con la ripresa, lo sviluppo e la connessione dell’attività del lavoro salariato nei suoi luoghi di concentrazione maggiore? Ci si augura che le prossime discussioni sul tema possano rispondere almeno ad alcune di queste domande, ma qualcosa può essere detta già adesso.
Dall’inizio del nuovo secolo il proletariato si è difeso in tutta o quasi la varietà delle sue membra: gli operai di fabbrica e gli insegnanti, gli studenti e i territori devastati, le donne e gli artisti intermittenti, il personale del servizio sanitario e i suoi utenti, i senza dimora e i senza statuto, gli LGBTI e gli abitanti dei ghetti urbani…. Di questo essere parti dello stesso corpo spesso non c’è affatto coscienza. Mi ha meravigliato per esempio sentire dire da qualcuno, nelle interviste ai teatri e ai luoghi di cultura occupati, che gli occupanti appartengono a classi sociali diverse. C’è invece una posta politica importante nel riconoscersi o meno come proletarie e proletari. L’identificazione di gran parte del lavoro subalterno con un presunto ceto medio è tradizionalmente uno dei luoghi comuni dell’ideologia padronale. Noi abbiamo tutto l’interesse a rovesciare lo stereotipo in un’immagine più utile alla nostra parte e soprattutto assai più vicina al vero. Non si tratta di occultare o ignorare le differenze interne, invece numerose e problematiche poiché se c’è qualcosa che di questo proletariato non si può dire è che sia omogeneo. Si tratta di cominciare segnando prima di tutto un netto confine tra il loro e il noi.
L’autorganizzazione è stata non di rado la forma in cui le lotte si sono manifestate negli ultimi anni per due principali ragioni, di cui è difficile dire quale sia la più significativa. Una ragione è l’involuzione delle forme organizzative, sindacali e politiche, che nel secolo scorso avevano diretto le lotte, sia pure con limiti e contraddizione di notevole spessore. Il fare da sé è spesso la reazione a una fondata sfiducia e una condizione sine qua non dell’azione, ma anche l’origine di problemi tra cui l’isolamento e la difficoltà di connessione. Ma esiste anche una seconda ragione. Questo proletariato in tutte o quasi le sue articolazioni ha una capacità di autorganizzazione maggiore di quella che ha caratterizzato il lavoro salariato del passato. E se il “cognitariato”, per dirla con Formenti è un’utopia letale, non lo è la constatazione di una crescita complessiva delle abilità e delle conoscenze delle classi subalterne. E’ vero che la grande quantità di sapere necessario oggi alla valorizzazione del capitale viene assorbito dalle macchine, di cui vecchie e nuove figure professionali restano appendici, condannate a compiti privi di autonomia e creatività. Ma è anche vero che la relazione con l’attuale sistema di macchine richiede oggi comunque livelli di cultura maggiori. Accade così che spesso vengano assimilati a una condizione proletaria uomini e donne con capacità e aspettative che l’organizzazione del lavoro poi tradisce. Contano poi i livelli di scolarizzazione, che in Italia negli ultimi anni hanno conosciuto un fenomeno di regressione, ma che per decenni invece hanno continuato a crescere. E conta la molteplicità dei canali di informazione, di cui è assolutamente sano e lecito diffidare, ma che contribuisce a dar vita a un proletariato più colto. Certo anche a persone più imbevute di stereotipi e di valori capitalistici, ma solo finché questi non entrano in palese contraddizione con una disperata condizione di esistenza. Allora possono mettersi in moto le stesse dinamiche che Marx descrive e per cui “l’anima abbrutita” e la “bestia da soma” si fa soggetto. Insomma l’autorganizzazione è l’espressione di una perdita, di un abbandono ma anche di una capacità acquisita dal proletariato nel suo complesso, compresa la classe operaia dell’industria. E forse a questa capacità si può affidare la speranza di un’autoemancipazione, che non esclude l’organizzazione politica ma la pone in termini e modalità diverse dal passato.
Questo proletariato è precario anche nelle sue parti che usufruiscono di contratti a tempo indeterminato perché delocalizzazioni, crisi e debito creano uno stato di cose minaccioso e instabile. Ma si tratta di una precarietà al suo interno diversificata perché, se dal punto di vista della perdita di garanzie e di certezze il lavoro subalterno tende a livellarsi verso il basso, restano e si accentuano le diverse possibilità e le modalità di resistenza. Nei luoghi di lavoro l’esistenza di un’aggregazione e la presenza di lavoratrici e lavoratori con esperienze di lotta sindacale consente almeno di tentare lotte per la stabilizzazione o per la difesa del posto di lavoro. Dove invece l’aggregazione manca, la lotta alla precarietà appare quasi impossibile ma può diventare anche l’inizio di qualcosa di più interessante. Esistono cioè situazioni di lavoro precario che proprio la mancanza di una concreta possibilità di contrattazione sindacale spinge alla politicizzazione.
L’indagine sugli artisti intermittenti in Italia ha mostrato che individui isolati, non occupati o che lavorano in frammenti diversi di occupazione possono mettersi insieme, coinvolgendo migliaia di persone e sviluppando un’azione efficace attraverso l’arma della politicizzazione. Si sono misurati con le istituzioni, la costituzione e le antiche leggi per rivendicare il diritto all’occupazione; hanno stabilito relazioni politiche con movimenti e sindacati conflittuali per evitare l’isolamento; hanno studiato forme di comunicazione con il territorio per coinvolgerlo nella difesa di un “bene comune”; hanno cercato di produrre reddito, discusso dei contenuti e dei committenti della produzione artistica ecc.
Si può obiettare che il rischio di dispersione a cui restano comunque esposti rende di fatto queste figure marginali in un conflitto in cui contano gli spostamenti di grandi masse, possibile solo a partire dai luoghi in cui l’organizzazione stessa del processo lavorativo produce fenomeni di concentrazione come determinati luoghi di lavoro o le grandi sedi universitarie. L’osservazione in parte anche giusta rimuove però un piccolo particolare: le figure in questione sono in gran parte giovani, sia pure in un senso assai lato del termine, e giovani non di rado con alti livelli di abilità e conoscenze. Rappresentano quindi la parte di società più coinvolta nei movimenti e nei conflitti e in grado di indirizzarli verso orizzonti di liberazione, evitando che vengano scagliati contro capri espiatori o verso falsi bersagli. In casi come questo la lotta di persone in condizioni di esistenza precaria può anche essere considerata come una delle espressioni con cui si è manifestata la presenza dell’intellettuale marginale nei conflitti di classe. Queste persone ovviamente non risolvono il problema della classe perché ne rappresentano solo un frammento; sono avanguardie ma con un significato diverso da quello che si è cristallizzato nel Novecento. Ma qui siamo già in un’altra discussione, quella sulle forme di organizzazione, che affronteremo in un prossimo futuro.