Nella nostra città c’è un vero e proprio lager che si chiama Cie

Tue, 07/10/2014 - 16:21
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Rivoltiamo la precarietà - Bari

Domenica 5 ottobre siamo stati davanti al Cie di Bari, dove al telefono insieme a Fatì ed altri detenuti abbiamo letto e condiviso questo volantino. Inoltre pubblichiamo l'intervista rilasciata sempre da Fatì ad un giornalista dell'Ansa sulle condizioni disumane che si vivono e delle ingiustizie che si subiscono nei Cie di tutt'Italia.

La protesta di Fatì nel Cie di Bari continua. Da più di dieci giorni c'è un migrante, detenuto ingiustamente come le persone presenti nei CIE di tutt'Italia, che mantiene la bocca cucita e lo sciopero della fame. Le sue condizioni di salute rimangono precarie. Ma a livello istituzionale, che siano governi locali e nazionali, nulla si dice e si fà per mettere in moto un processo che porti alla chiusura definitiva dei CIE, dei veri e propri lager di Stato dove si continuano a considerare illegali le persone in quanto tali. Ormai è noto a chiunque quanto nei CIE si 'vive' in condizioni disumane, persiste la negazione dei diritti, si susseguono 'violenze psicologiche'. Un lager all’interno della città dove la solitudine, le sofferenze, la lenta agonia verso l’espulsione dall’Italia accompagnano quotidianamente queste persone svuotate nella loro dignità di esseri umani.

Però nel frattempo il governo italiano e le istituzioni europee continuano a versare lacrime di coccodrillo, a sciorinare interventi retorici e ipocriti di fronte alle tragedie nel mediterraneo (come successo per commemorare la morte di quasi 400 persone sulle coste di Lampedusa nell'ottobre del 2013); continuano ad alimentare il business dell'economia dell'immigrazione spendendo e regalando milioni di euro a cooperative e grandi associazioni per il mantenimento di fantomatici presidi di sicurezza, che altro non sono se non la punta di un razzismo istituzionale funzionale alle politiche securitarie dei governi.

Infatti i dispositivi repressivi sono tutti ancora lì. Il reato di “clandestinità”, solo parzialmente ridimensionato, è complementare alle leggi Turco-Napolitano e Bossi-Fini che hanno reso la vita dei migranti totalmente precaria e schiava del lavoro nero sottopagato o di contratti di lavoro economicamente al ribasso e senza i diritti minimi riconosciuti. Nel Cie di Bari, che secondo una sentenza del 9 gennaio scorso è una struttura non in grado di garantire neppure gli standard minimi di dignità ai detenuti, la protesta dei migranti va sostenuta. Perché semplicemente vogliono ritornare liberi.

Insieme a tutti e tutte i/le migranti rinchiusi nei CIE rivendichiamo: la chiusura immediata dei Cie, l’abolizione delle leggi Bossi-Fini, della Turco-Napolitano e del reato di clandestinità; il riconoscimento del diritto per tutte e tutti ad una vita dignitosa e al libero transito di tutti e tutte.

L'intervista a Fatì dall'Ansa Puglia

"Sono ormai un cadavere - dice al telefono - fatemi uscire da qui". Fatì è comunque ancora in sciopero della da 13 giorni all'interno del Centro identificazione ed espulsione (Cie) di Bari. Qui - aggiunge - è come ai tempi dei nazisti. Ha circa 30 anni e racconta di essere stato trasferito a Bari dal Cie di Ponte Galeria proprio due giorni prima di conoscere l'esito della sua richiesta di protezione internazionale. Protestava per i diritti "dei detenuti nel Cie - dice al telefono - e per questo mi hanno detto che la protezione potevo scordarmela".
Lui è arrivato in Italia quando era bambino, "nel 1987, con il passaporto, dopo essere fuggito dalla mia terra dove ero stato violentato". Poi in Italia, sarebbero iniziati i problemi perché, spiega, "sono stato accusato di due piccoli reati che non ho commesso e ho scontato in tutto circa nove anni di carcere. Non ne posso più. fatemi sapere cosa ne sarà di me: qui le condizioni di vita sono disumane. Non ci cambiano neppure le lenzuola e ora che ha piovuto, dentro la struttura è tutto bagnato.
Fatì ricorda di aver scritto anche alla Corte Europea, ma è convinto che "non mi faranno mai sapere la risposta". Inoltre dice che l'avvocato d'ufficio che gli è stato assegnato a Bari, "ha chiesto di avere la relazione sul mio stato di salute per darla ai giudici", ma "non l'ha ottenuta perché deve chiederla al dirigente sanitario che io - sottolinea - non ho mai visto, e poi lui dovrà chiederla alla prefettura".
"Sono in sciopero della fame da 13 giorni, non ne posso più. Continuerò così finché non uscirò da qui: non importa dove, ma voglio andare via dai Cie dove stiamo come gli ebrei ai tempi dei nazisti. La mia pressione è oggi a 80 su 50, e da 68 chili sono arrivato a pesarne 55: fatemi almeno parlare con un garante per i diritti dei detenuti - conclude - io ho già pagato ingiustamente. Adesso basta".