L'asta di Amazon e i sindaci piazzisti

Fri, 24/11/2017 - 11:47
di
Simone Ramella (da Comune-info)*

Da quando Amazon ha annunciato, all’inizio di settembre, la sua intenzione di aprire un secondo quartier generale in Nord America destinato ad affiancare quello di Seattle – precisando di volerlo insediare in un’area metropolitana con più di un milione di abitanti, caratterizzata da un ambiente favorevole alle imprese e in grado di attrarre e trattenere tecnici di talento – decine di sindaci e governatori degli Stati Uniti sono in fibrillazione.
In un Paese ancora alle prese con le ferite della grave crisi finanziaria iniziata nel 2007, a fare gola sono soprattutto i cinque miliardi di dollari di investimento e i 50mila nuovi posti di lavoro – con una retribuzione media superiore ai 100mila dollari all’anno – promessi dal colosso del commercio elettronico. Così per diverse settimane i funzionari di molte amministrazioni hanno fatto le ore piccole per mettere a punto le rispettive candidature.

Alla scadenza del 19 ottobre ne sono state presentate 238, alcune delle quali provenienti anche dal Canada. Nell’elenco figurano Stati, distretti, territori e città, tra cui l’ingorda Seattle, che dopo il primo quartier generale vorrebbe aggiudicarsi anche il secondo, e New York, la metropoli a stelle e strisce per antonomasia, che sebbene sia notoriamente già molto affollata è riuscita a individuare quasi sei milioni di metri quadrati di terreno, suddivisi in quattro aree, da mettere a disposizione di Amazon. Per ingraziarsi il potente interlocutore, la sera del 18 ottobre la Grande Mela ha anche illuminato con l’arancione del suo logo l’Empire State Building, Times Square e molti altri edifici di Manhattan.

Il sindaco di Boston, Marty Walsh, ha scelto invece di accompagnare il documento di 218 pagine con cui la capitale del Massachusetts ha formalizzato la propria candidatura con due video confezionati in modo molto professionale e una lettera indirizzata «con orgoglio ed entusiasmo» a Jeff Bezos, fondatore, presidente e amministratore delegato dell’azienda di Seattle, in cui la città è definita «la soluzione perfetta per Amazon per costruire una comunità, creare opportunità e portare avanti la sua missione di cambiare il mondo». Come ha fatto notare il Boston Magazine, nella candidatura non si fa però alcun riferimento alle agevolazioni fiscali e agli altri incentivi economici che potrebbero essere messi sul piatto. Un’omissione temporanea, come ha lasciato intendere il sindaco, in attesa di capire se la la città della costa atlantica abbia davvero qualche chance di spuntarla.

Nel tentativo di attirare l’attenzione e ottenere un po’ di visibilità a buon mercato, altre città meno famose di New York e Boston si sono spinte decisamente oltre, sfoggiando più inventiva e/o sprezzo del ridicolo. A Tucson hanno avuto la pensata di spedire in regalo a Bezos un cactus gigante alto più di sei metri,  per comunicare il messaggio che nella città dell’Arizona c’è spazio per crescere nel lungo periodo. La pianta grassa, però, è stata subito dirottata verso un museo di storia naturale perché, hanno spiegato da Seattle, «purtroppo non possiamo accettare regali». Almeno non  quelli che contengono spine.
Il consiglio comunale della piccola Stonecrest, in Georgia, ha approvato un piano che prevede di ribattezzare 140 ettari del suo territorio con il nome “City of Amazon”, se la multinazionale deciderà di insediare lì la sua seconda casa. A Birmingham, in Alabama, hanno scelto invece di puntare su un’installazione artistica, collocando in alcune vie delle fedelissime riproduzioni giganti delle scatole di Amazon e invitando i residenti a utilizzarle da sfondo per i propri selfie, da allegare ai messaggi inviati per sostenere l’offerta presentata dalla città.
La vetta più alta – o più bassa, a seconda del punto di vista – è stata probabilmente toccata dal primo cittadino di Kansas City, Sly James, che ha avuto la brillante idea di comprare sul sito di e-commerce un migliaio di prodotti di ogni genere, scrivendo altrettante recensioni in cui vengono tessute le lodi della sua città. Poi si è fatto immortalare seduto alla scrivania nel suo ufficio, circondato dalle scatole degli articoli acquistati con il logo di Amazon in bella vista, e ha postato la foto su Twitter.

Anche la città di Frisco, a mezz’ora di auto da Dallas, si è affidata a Twitter per postare un videomessaggio confezionato come un vero e proprio spot, e anche in questo caso il protagonista assoluto è il primo cittadino, Jeff Cheney, che indossa senza apparente imbarazzo i panni del teleimbonitore. In una delle prime inquadrature, circondato da decine di persone sorridenti mentre tiene in mano l’immancabile scatola di cartone con logo in favore di telecamera, si rivolge direttamente al gigante del commercio online: «Amazon, vogliamo crescere insieme a te!». Per riuscirci, la città texana ha messo genericamente a disposizione il 40% del suo territorio. «Al momento è edificato solo il 60% – ha spiegato Cheney – quindi abbiamo un sacco di spazio disponibile».

Come sottolineato da Nellie Bowles sul New York Times, le videolettere dei sindaci ad Amazon – che in alcuni casi sarebbe più corretto definire videosuppliche – nelle  settimane che hanno preceduto la scadenza del 19 ottobre si sono moltiplicate, al punto da diventare un sottogenere di YouTube. Il 14 settembre Mark D. Boughton, primo cittadino di Dunbury, in Connecticut, ne ha postata una indirizzata a Bezos in cui, dopo essersi dichiarato «un orgoglioso cliente», ha chiesto ad Alexa, l’assistente virtuale del gigante dell’e-commerce, quale fosse la città ideale per il secondo quartier generale. La risposta? Danbury, of course!
Alexa sembra essere stata programmata per compiacere il più possibile i propri interlocutori, perché quando la sindaca di Washington D.C., Muriel Bowser, le ha chiesto dove si sarebbe dovuta insediare «l’azienda più interessante del mondo», la risposta è stata: «Ovviamente Washington!».

Ci sarebbe da ridere, o almeno sorridere, se la trasformazione di sindaci eletti dal popolo in piazzisti e mendicanti, pronti a tutto per entrare nelle grazie del gigante Amazon, non fosse rivelatrice dello stato comatoso in cui versa la democrazia nel sistema capitalistico attuale. Un sistema che consente a una mega corporation di lanciare un’asta, mettendo centinaia di amministrazioni locali l’una contro l’altra con l’obiettivo di strappare l’offerta migliore, sotto forma di incentivi o sgravi fiscali nell’ordine di qualche miliardo di dollari.
Quello delle agevolazioni fiscali è uno dei capitoli più importanti e controversi di questa storia. Non è un segreto, infatti, che incideranno tantissimo sulla decisione finale di Amazon, mentre resta un mistero quante risorse pubbliche siano pronte a stanziare le singole amministrazioni per rendere più allettante la propria offerta. L’unica eccezione è quella del New Jersey, dove il governatore Chris Christie ha offerto ben sette miliardi di dollari di incentivi in cambio dell’apertura del nuovo quartier generale a Newark.
Neil deMause, autore di un articolo molto dettagliato e altrettanto critico sull’asta lanciata da Amazon, nel corso di un’intervista radiofonica ha sottolineato la poca trasparenza che caratterizza tutto il processo. Anche se la posta in gioco è un’enorme quantità di denaro pubblico, infatti, di ogni offerta «sappiamo soltanto quello che le città e gli Stati vogliono che sappiamo». Tutto il resto avviene a porte chiuse, all’insaputa dei cittadini, compresi quelli che presto o tardi saranno chiamati a pagare – sotto forma di un aumento delle tasse o di tagli ai servizi – il conto dell’operazione, che rischia di essere molto salato.

Rispetto a una gara pubblica, caratterizzata da criteri rigidi, regole chiare e offerte in busta chiusa e anonima, quella promossa da Amazon è una competizione da Far West in cui tutto è consentito, senza alcuna garanzia per i partecipanti. Il Golia di Seattle, infatti, nei prossimi mesi potrà utilizzare i sette miliardi di dollari offerti dal New Jersey come cifra di riferimento per bussare alla porta di uno degli altri contendenti e provare a strappare condizioni ancora più vantaggiose, con ottime probabilità di riuscirci. Non a caso la decisione sulla località in cui insediare il nuovo quartier generale sarà presa, con calma, soltanto nel corso del 2018.

È quello che il Wall Street Journal, in un articolo del 19 ottobre, ha definito «il modello di business di Amazon», basato appunto sugli incentivi fiscali e sulla necessità di aizzare le città l’una contro l’altra per riuscire a ottenere il pacchetto di sussidi pubblici più conveniente. Un modus operandi che Art Rolnick, economista all’Università del Minnesota citato nel pezzo di Nellie Bowles del 25 settembre, ha definito meno diplomaticamente «un ricatto». Nello stesso articolo, Matthew Gardner, dell’Institute on Taxation and Economic Policy (Itep), un think tank indipendente che si occupa delle politiche fiscali statali e federali, ha liquidato l’iniziativa come un «dog and pony show», una messinscena. «Amazon vuole qualcosa per niente – ha spiegato – Vorrebbe un pacchetto di agevolazioni fiscali in cambio di qualcosa che avrebbe realizzato comunque».

La stessa strada, del resto, è già stata percorsa con successo da Tesla, azienda specializzata in veicoli elettrici ad alte prestazioni e all’avanguardia anche nello sviluppo delle auto senza conducente, che nel 2013 ha lanciato un’asta durata 10 mesi per individuare la località in cui aprire la sua Gigafactory, una megafabbrica di batterie agli ioni di litio che dovrebbe dare lavoro a circa 6.500 persone. Alla fine la scelta è caduta sul Nevada, che ha il secondo peggior sistema educativo di tutti gli Stati Uniti ma ha offerto a Tesla agevolazioni fiscali pari a circa 1,3 miliardi di dollari. Nel frattempo l’azienda di Elon Musk, alle prese con un volume di vendite deludente e una voragine nei bilanci, a metà ottobre ha annunciato centinaia di licenziamenti tra i suoi circa 33mila dipendenti.

Nella patria della libera impresa, spesso insofferente rispetto a ogni forma di regolamentazione, i giganti del turbocapitalismo continuano a essere liberi di operare a proprio piacimento, solo che per farlo adesso battono cassa bussando alla porta del pubblico, che di solito si adegua con entusiasmo, senza battere ciglio. Come ha spiegato Greg LeRoy, fondatore e direttore esecutivo di Good Jobs First, un centro di ricerca non profit specializzato nel monitoraggio dei sussidi pubblici per il lavoro, quello dei mega-accordi tra le aziende e le amministrazioni statali e locali, con una valore pari ad almeno 50 milioni di dollari, negli Usa è un fenomeno sempre più diffuso, che a partire dalla grande crisi iniziata nel 2007 si è più che duplicato.

Il record per il pacchetto di sussidi pubblici più consistente mai assegnato negli Usa – approvato dopo un percorso legislativo durato soltanto tre giorni per battere sul tempo la concorrenza di altri 10 contendenti – per il momento spetta ancora allo Stato di Washington, che nel 2013 ha concesso alla Boeing agevolazioni fiscali per 8,7 miliardi di dollari, con l’obiettivo di mantenere e aumentare la forza lavoro impiegata nel proprio territorio nel settore aerospaziale. Una volta passata all’incasso, però, negli anni successivi la Boeing ha licenziato più di 12mila dipendenti, pari a circa il 15% di quelli occupati complessivamente nello Stato.
Ancora più clamoroso per certi versi è il caso della Apple – attualmente valutata, è il caso di ricordarlo, più di 800 miliardi di dollari – che alla fine di agosto è riuscita a ottenere sgravi fiscali pari a 208 milioni di dollari in cambio della costruzione di due nuovi data center nei pressi di Des Moines, in Iowa, che dovrebbero dare lavoro a una cinquantina di persone. Calcolatrice alla mano, ogni nuovo posto di lavoro costerà alle casse pubbliche la bellezza di più di quattro milioni di dollari. Per David Swenson, economista della Iowa State University, è «un regalo fatto a un’azienda straordinariamente ricca che non ha alcun senso, se non dal punto di vista di un politico». A maggior ragione negli Stati Uniti, dove negli ultimi otto anni il tasso di disoccupazione si è più che dimezzato, passando dal 10% del 2009 al 4,4% di oggi.

L’annuncio dell’asta per il nuovo quartier generale di Amazon è avvenuto negli stessi giorni in cui il Wisconsin, con la benedizione del presidente Trump, ha approvato la concessione di incentivi per tre miliardi di dollari alla Foxconn, azienda di Taiwan specializzata nella produzione di componenti elettronici, che si è impegnata a investire 10 miliardi di dollari per aprire nello Stato entro il 2020 una fabbrica di schermi LCD che dovrebbe impiegare tra le tremila e le 13mila persone.
Ipotizzando che si arrivi davvero alla creazione di 13mila posti – ed è lecito dubitarne, visto che molti investimenti simili annunciati dalla Foxconn negli ultimi anni in varie parti del mondo devono ancora materializzarsi – per ciascuno di essi il costo annuale a carico dello Stato sarà compreso tra i 15mila e i 19mila dollari. Secondo il Wisconsin Legislative Fiscal Bureau, saranno necessari circa 25 anni per recuperare i costi sostenuti, ma questa stima potrebbe anche peccare di ottimismo.

Il problema, come ha scritto sul Los Angeles Times il premio Pulitzer Michael Hiltzik commentando la vicenda degli incentivi concessi alla Apple in Iowa, è che i governi statali e locali non conducono quasi mai delle analisi costi-benefici per determinare il loro valore, tranne che a posteriori, quando i soldi sono già stati erogati. Anche dall’altra parte dell’Atlantico, insomma, i politici sembrano essere interessati soprattutto ai vantaggi personali che possono ricavare da questi progetti nel breve periodo, sotto forma di visibilità e consenso, senza preoccuparsi delle conseguenze sociali ed economiche che avranno nel lungo periodo.
«Tra gli esperti di sviluppo economico è diffusa la convinzione che questo tipo di incentivi di solito rappresenti uno spreco di soldi per le amministrazioni statali e cittadine – ha spiegato all’Associated Press Marc Levine, direttore del Center for Economic Development dell’Università del Wisconsin – Nel lungo periodo non producono nessun beneficio economico significativo, certamente non a livello nazionale». L’accordo raggiunto con la Foxconn per l’apertura del nuovo stabilimento nel Midwest ha permesso, però, a Donald Trump di presentarsi davanti alle telecamere a rivendicare l’impegno della sua amministrazione per riportare i posti di lavoro negli Stati Uniti, come aveva promesso durante la campagna elettorale che lo ha condotto nello Studio Ovale.
Una delle lezioni che si ricavano da questi precedenti è che le amministrazioni pubbliche, nel momento in cui accettano di farsi concorrenza a vicenda per riuscire a sottoscrivere un mega-accordo con la corporation di turno, sono destinate a soccombere. Greg LeRoy lo definisce «il lato oscuro del federalismo costituzionale», che in una dinamica di potere asimmetrica consente alle grandi aziende di giocare a proprio piacimento con gli Stati e le città, «mentre chi ha il compito di gestire i fondi pubblici si limita a fare quello che gli viene detto di fare: offrire più sussidi».

Gli unici amministratori che sembrano esserne consapevoli, però, sono quelli di San Antonio, in Texas, che ad Amazon hanno risposto «no, grazie». In una lettera aperta indirizzata a Bezos, il sindaco Ron Nirenberg e il giudice della contea di Bexar, Nelson Wolff, hanno sottolineato, infatti, che l’asta lanciata dalla corporation di Seattle ha scatenato «una guerra al rialzo tra Stati e città» alla quale San Antonio non intende prendere parte. «È difficile immaginare che un’azienda all’avanguardia come Amazon non abbia già selezionato la sua sede preferita», hanno aggiunto, precisando anche che «svendere tutto alla cieca non è nel nostro stile».
Lo zelo e l’entusiasmo con cui molte altre amministrazioni hanno invece srotolato tappeti rossi a Bezos & C. – in una sorta di «corsa verso il Sacro Graal», come l’ha ribattezzata il sindaco di Ottawa, Jim Watson – appaiono ancora più sopra le righe se si considera il fatto che i benefici dell’operazione per ora sono solo sulla carta. Quella intestata di Amazon, tra l’altro. I 50mila nuovi posti di lavoro a tempo pieno – e ad alto reddito – che dovrebbero arrivare insieme al secondo quartier generale, per esempio, sono indubbiamente tanti, almeno in relazione a un’unica azienda, ma questo volume di assunzioni sarà raggiunto – se mai lo sarà davvero – non prima di 10-15 anni.

Nuovi posti di lavoro a parte, il fascino esercitato da Amazon su molti cittadini e amministratori pubblici si può spiegare anche con il boom delle aziende del software e del web – caratterizzato in questi anni da brillanti performance in Borsa, utili in crescita e ottima liquidità – che ha finito per far apparire obsoleti gli altri settori produttivi. Come ha illustrato bene Katy Steinmetz in un pezzo pubblicato sul settimanale Time, nella percezione collettiva l’industria tecnologica oggi è universalmente considerata «la spina dorsale economica del futuro».
Tra i potenziali vantaggi che deriverebbero dall’ospitare il nuovo quartier generale di Amazon, secondo l’economista Enrico Moretti, c’è l’effetto attrattivo che le grandi imprese dell’hi-tech tendono a esercitare su insiemi di aziende più piccole. «La sua ricerca – ha precisato Steinmetz – è giunta anche alla conclusione che ogni nuova assunzione in questo settore porta alla creazione di circa altri quattro posti di lavoro nella stessa comunità, dai tassisti agli insegnanti».

Seguendo il ragionamento di Moretti, l’impressione è che, senza la pesante zavorra delle agevolazioni fiscali,  il nuovo quartier generale del colosso dell’e-commerce potrebbe davvero fare la differenza in positivo nei territori più depressi e meno urbanizzati del Paese, dove il tasso di industrializzazione è più basso e quello di disoccupazione superiore alla media nazionale. Certamente non in una metropoli come New York che, come ha sottolineato Adam Friedman, non ha alcun bisogno dei nuovi posti di lavoro promessi da Amazon ma deve semmai aiutare a crescere le imprese già presenti sul suo territorio.
D’altro canto, gli stessi criteri che accompagnavano l’annuncio di inizio settembre – tra cui l’accesso diretto del nuovo quartier generale alla rete ferroviaria e metropolitana, la presenza di un aeroporto internazionale nel raggio di 45 minuti e una superficie iniziale di almeno 50mila metri quadrati, con la possibilità di espandersi fino a 750mila metri quadrati dopo il 2027 – sembrano escludere in partenza le aree degli Stati Uniti che potrebbero ottenere più benefici dall’operazione.

Oltre alle agevolazioni fiscali, nella colonna delle uscite devono essere conteggiati anche i costi diretti legati all’aumento della popolazione nella località selezionata. Dando per scontato che Amazon non potrà reclutare tutti i dipendenti del suo secondo quartier generale tra i cittadini che già vi risiedono, infatti, bisogna mettere nel conto le risorse necessarie a realizzare le infrastrutture e i servizi pubblici destinati ai nuovi abitanti e ai loro familiari, dall’assunzione degli insegnanti che dovranno educare i loro figli a quella dei poliziotti che dovranno vigilare sulle zone in cui vivono, dall’adeguamento della rete stradale alle altre opere di urbanizzazione.
Come insegna l’esperienza di Seattle, alla voce costi sociali vanno inoltre inserite le ricadute negative che l’arrivo di migliaia di lavoratori con un reddito superiore alla media avrà su una parte della popolazione locale. Sul suo sito, Amazon sottolinea che circa il 20% degli oltre 40mila dipendenti del suo quartier generale, aperto in centro nel 2010, risiede molto vicino al posto di lavoro. Tanto vicino da poterci andare ogni giorno a piedi.
Il loro arrivo, però, ha provocato un’impennata del costo della vita. I prezzi degli alloggi, in particolare, sono saliti alle stelle, costringendo una parte dei residenti a basso reddito a trasferirsi lontano dalla città. Solo nell’ultimo anno, il valore delle case è aumentato di oltre l’11 per cento, mentre gli affitti nell’arco degli ultimi sei anni sono cresciuti del 57%. Oggi gli inquilini pagano in media 1.749 dollari al mese, 635 in più rispetto al 2011.
L’aumento del numero dei residenti ha avuto degli effetti negativi anche sulla viabilità, facendo entrare Seattle nella top ten delle peggiori città degli Stati Uniti per ingorghi stradali: nel 2016, come ha rilevato una ricerca pubblicata lo scorso febbraio, i suoi automobilisti hanno trascorso in media 55 ore imbottigliati nel traffico, con un costo per la città stimato complessivamente in circa due miliardi di dollari.

Non vanno poi dimenticate le critiche rivolte all’organizzazione del lavoro privilegiata da Amazon, caratterizzata da «un controllo repressivo delle mansioni e turni impossibili», come ha spiegato il 20 ottobre in un’intervista al Venerdì di Repubblica l’economista Marta Fana, autrice del libro Non è lavoro, è sfruttamento (Laterza), un’inchiesta sulla condizione del lavoro in Italia che, ironia della sorte, su Amazon.it è accompagnata da ottime recensioni.
«La settimana lavorativa può essere anche di 60 o addirittura di 80 ore, e l’intensità che caratterizza le mansioni è il vero fattore di ansia e malattia per i lavoratori – scrive Fana a proposito del magazzino di Castel San Giovanni, il più grande magazzino europeo dell’azienda di Bezos – Il controllo sui tempi è totale, ogni azione viene registrata, cronometrata. Non riuscire a mantenere i ritmi imposti o una riduzione della propria produttività comporta un demansionamento immediato. Ernie, attacchi di panico, psicofarmaci sono i compagni di strada di questi lavoratori».

In un lungo reportage pubblicato nel 2015 sul New York Times, Jodi Kantor e David Streitfeldaug avevano già messo in luce come spingere i dipendenti oltre i propri limiti sia parte integrante della “filosofia del lavoro” dell’azienda di Seattle, che incoraggia i suoi lavoratori a smontare le idee dei colleghi nelle riunioni, a lavorare a lungo e fino a tardi – con tanto di email spedite dopo mezzanotte seguite a stretto giro da messaggi di testo che sollecitano una risposta – e a mantenere standard di rendimento «irragionevolmente alti», come sono definiti nei principi di leadership, i 14 comandamenti dettati da Bezos, moderno Messia della vendita per corrispondenza.
Può darsi che questo approccio sia uno dei motivi all’origine del successo commerciale di Amazon. Quello che è certo è che sottopone i suoi dipendenti a una costante pressione psicologica e a pesanti carichi di lavoro, che si traducono in un turnover del personale molto frequente. Un’indagine condotta nel 2013 da PayScale, azienda che si occupa dell’analisi dei salari, ha indicato in un anno la durata media degli impieghi, una delle più basse tra le imprese di Fortune 500, la lista annuale che classifica le 500 maggiori imprese societarie statunitensi, misurate sulla base del loro fatturato. La stessa Amazon ha precisato che solo il 15% del suo personale ha superato la boa dei cinque anni.

Chi riesce a resistere, spiegano Kantor e Streitfeldaug, spesso finisce per diventare un “Amazonian” a tempo pieno, vivendo in simbiosi con l’azienda e trascurando tutto il resto. È il caso, per esempio, di Dina Vaccari, assunta nel 2008 per vendere carte regalo ad altre imprese: «Mi è capitato di non dormire per quattro giorni di seguito – ha confidato ai reporter del quotidiano newyorkese – Questi prodotti erano i miei bambini e ho fatto tutto quello che potevo per garantire il loro successo». Fino al punto da pagare un collaboratore in India con i propri soldi, e senza l’approvazione dei suoi superiori, per riuscire a produrre ancora più risultati.
Molti altri, invece, non reggono a lungo. Lavoratrici e lavoratori che hanno sofferto di cancro, aborti spontanei o altre crisi personali hanno raccontato di essere stati valutati ingiustamente o rimossi dai rispettivi incarichi senza che fosse concesso loro il tempo necessario per rimettersi in carreggiata. «Quando non sei in grado di dare tutta te stessa per 80 ore alla settimana ti considerano una grande debolezza», ha spiegato Molly Jay, un’ex dipendente costretta a ridurre il proprio orario di lavoro per assistere il padre malato terminale, prima di prendere la decisione di licenziarsi.
Uno dei casi che hanno fatto notizia è quello che nel 2011 ha riguardato un magazzino della Pennsylvania orientale, dove gli operai erano costretti a lavorare in un ambiente con temperature vicine ai 40 gradi, mentre alcune ambulanze attendevano all’esterno per prestare soccorso a quelli tra loro che di volta in volta perdevano conoscenza. Dopo la pubblicazione di un’inchiesta da parte del giornale locale, Amazon si è finalmente decisa a installare dei condizionatori d’aria.

Storie come queste stridono parecchio con i volti sorridenti e le dichiarazioni compiaciute che affollano i video autocelebrativi dell’azienda e giustificano più di una perplessità rispetto all’opportunità di foraggiare con generosi sussidi pubblici un modello lavorativo di questo tipo. Non sembra avere molti dubbi, invece, il Washington Post, che in un articolo di Jonathan O’Connell del 19 ottobre ha sottolineato come l’arrivo di Amazon abbia provocato «un boom economico a Seattle, portando alla creazione di più di 40mila posti di lavoro in una città nota per la catena di caffetterie Starbucks e i fan dei Seahawks», la squadra locale di football americano.
Dopo aver segnalato alcuni dei problemi legati alla presenza ingombrante del gigante del commercio online – come il boom del costo degli alloggi, che due anni fa ha portato alla dichiarazione dello stato di emergenza per i senza tetto – O’Connell ha sottolineato che «la sua crescita ha trasformato un’area industriale trascurata a nord del centro città in un hub di giovani lavoratori e ha fatto di questa regione, sulla scia di Microsoft, la località più importante della Internet economy al di fuori dalla Silicon Valley».
«Amazon – ha aggiunto – ha contribuito all’economia locale con 30 miliardi di dollari e fino ad altri 55 miliardi in benefici indiretti». Di conseguenza, «la disoccupazione nell’area di Seattle è al 3,7 per cento, sotto la media nazionale del 4,4 per cento». In un altro pezzo pubblicato qualche giorno dopo, lo stesso giornalista ha ribadito che «per adeguare la città alla crescita dell’azienda, i contribuenti hanno finanziato miglioramenti per centinaia di milioni di dollari, anche se Amazon ha contribuito direttamente all’economia locale con 30 miliardi di dollari».
L’assenza dell’indicazione delle fonti dei dati citati nei due articoli ha attirato l’attenzione di Fair (Fairness and Accuracy in Reporting), associazione che si occupa di monitorare la qualità dell’informazione a stelle e strisce, che ha fatto notare come i 30 miliardi di dollari di investimenti diretti e i 55 miliardi di ricadute indirette non siano altro che la somma di alcune voci contenute in un comunicato stampa rilasciato dalla stessa Amazon. Rispondendo a una domanda che gli è stata posta via Twitter, lo ha ammesso anche O’Connell, che ha indicato come fonte la quarta pagina del documento con cui l’azienda ha aperto l’asta per il suo nuovo quartier generale.
Il quotidiano della capitale Usa, del resto, non è più il giornale che nel 1972, con l’inchiesta di Bob Woodward e Carl Bernstein, scoperchiò il pentolone del Watergate, provocando le dimissioni del presidente Nixon. Da quando nel 2013 è stato acquistato per 250 milioni da Jeff Bezos – che proprio nelle ultime settimane ha riconquistato la corona di uomo più ricco del mondo grazie a un patrimonio personale di oltre 90 miliardi di dollari – in più di un caso ha dato l’impressione di comportarsi come una sorta di house organ di Amazon, anche se a detta del direttore Martin Baron il nuovo proprietario non ha mai messo bocca nelle scelte editoriali.

Uno di questi casi è l’attacco sferrato a inizio ottobre al senatore Bernie Sanders, uno dei bersagli prediletti del Washington Post, che si è visto rifilare dai suoi solerti fact checker ben tre Pinocchi (in una scala da uno a quattro) pur avendo detto la verità, come ammesso tra le righe dello stesso articolo. La “colpa” dell’ex sfidante di Hillary Clinton per la nomination democratica alla Casa Bianca è stata quella di aver ricordato, durante un intervento al Westminster College, in Missouri, che «non esiste alcuna giustificazione morale o economica per il fatto che i sei uomini più ricchi del mondo abbiano tanta ricchezza quanto la metà più povera della popolazione mondiale, 3,7 miliardi di persone».
L’aumento della fortuna personale di Bezos è legato, ovviamente, alla crescita di Amazon che – come segnala l’ultima indagine annuale di Ricerche e Studi del Gruppo Mediobanca sulle principali imprese multinazionali del mondo – dopo anni di dominio della Microsoft, dal 2014 è la regina dei ricavi tra i grandi gruppi che operano prevalentemente nel commercio elettronico, nella produzione di software e nei servizi Internet (social network, motori di ricerca, portali web). L’anno scorso l’azienda di Seattle ha fatturato 129 miliardi di euro (+4,4% rispetto al 2012), pari a quasi un quarto del totale del settore delle WebSoft e a oltre la metà (52,5%) del giro d’affari dell’e-commerce.

Con i suoi 341mila dipendenti Amazon è anche il primo datore di lavoro tra i giganti mondiali del software e del web. Il numero dei suoi addetti nell’ultimo quinquennio è aumentato del 286,2%, con un ritmo di crescita superato soltanto dalle cinesi Vipshop, i cui dipendenti nel 2016 erano nove volte di più rispetto al 2012, e JD.com, che nello stesso arco di tempo li ha quadruplicati. Per ogni 10 milioni di euro di fatturato Amazon impiega 26 persone, contro le 50 delle multinazionali mondiali della grande distribuzione.
Dalla ricerca di Mediobanca emerge anche che tra il 2012 e il 2016, facendo tassare due terzi del proprio utile nei cosiddetti paradisi fiscali, le grandi aziende del software e del web hanno eluso complessivamente 46 miliardi di euro di imposte, che salgono a 69 se si aggiunge alla lista anche Apple, che non è considerata una web company perché genera la maggior parte del proprio fatturato nell’hardware. Il trend, tra l’altro, è in crescita: dai sette miliardi sottratti al fisco nel 2012, infatti, si è passati agli oltre 11 miliardi di imposte risparmiati nel 2016.
Per le società WebSoft statunitensi, in particolare, l’aliquota media di tassazione risulta essere del 19,5%, decisamente più bassa rispetto a quella del 35% applicata negli Usa. Grazie ad accordi fiscali con Paesi come l’Irlanda, i Paesi Bassi e il Lussemburgo, fuori dai confini nazionali, e in particolare in Europa, versano infatti molte meno imposte, con un’aliquota media pari a circa il 10%.
Negli ultimi anni, però, la Commissione europea ha iniziato a mettere in discussione questi accordi, considerandoli alla stregua di aiuti di Stato mascherati, contrari alle norme Ue. Dopo il caso eclatante della Apple, che secondo Bruxelles deve versare all’Irlanda 13 miliardi di euro per «illegali vantaggi fiscali», anche Amazon è finita nel mirino per l’accordo di “tax ruling” raggiunto nel 2003 con il Lussemburgo, dove ha sede il suo quartier generale in Europa, che nell’arco di un decennio le avrebbe permesso di risparmiare circa 300 milioni di euro.

Se il dibattito sui costi e i benefici derivanti dall’insediamento del nuovo quartier generale di Amazon resta aperto, alla luce di questi numeri risulta ancora più difficile trovare una giustificazione plausibile per l’erogazione di sussidi pubblici a nove o, addirittura, dieci zeri a favore di un’azienda che ha una capitalizzazione di mercato superiore ai 500 miliardi di dollari, elude il pagamento delle tasse su una parte dei suoi utili ed è guidata dall’uomo più ricco del mondo.
Neil deMause, nell’argomentare le sue critiche all’asta lanciata da Amazon, ha rispolverato il paragone con le Olimpiadi, che negli ultimi decenni, con le sole eccezioni di Los Angeles (1984) e Atlanta (1996), si sono sempre rivelate un pessimo affare per le casse pubbliche dei Paesi che le hanno organizzate. Allo stesso modo, la località scelta dalla multinazionale di Seattle per ospitare il suo nuovo quartier generale, ha spiegato il giornalista newyorkese al microfono di CounterSpin, rischia di essere quella che ci rimetterà di più, perché «se sei costretto a sborsare miliardi di dollari in cambio di 50mila posti di lavoro», che non arriveranno nemmeno tutti insieme ma solo nell’arco di almeno un decennio, «non è assolutamente possibile recuperare tutti i costi dell’investimento».
Alla fine, dunque, a fare il vero affare potrebbero essere tutti gli Stati e le città che non concluderanno l’affare con Amazon.

*Fonte articolo: https://comune-info.net/2017/11/lasta-amazon-sindaci-piazzisti/