Per i migranti l'eccezione è regola

Sun, 24/05/2015 - 22:52
di
LasciateCIEntrate (da "Left")

Il 7 aprile 2015 una delegazione di LasciateCIEntrare si reca a Bari per “visitare” il Cie e il Cara, luoghi da qualche anno “accessibili” grazie alle denunce e all’azione capillare delle tante associazioni che fanno parte della campagna e che si occupano di migranti. Non è la prima volta che visitiamo Bari, ma adesso “l’emergenza” si è spostata sulle centinaia di Cas, Sprar e Hub, centri sparsi sul territorio in maniera liquida e distorta. Un puzzle assurdo, ingestibile, incontrollabile al quale oggi possiamo aggiungere un tassello: l’Ex-Set, un capannone trasformato da sei mesi in una tendopoli per circa 180 migranti. Con gli attivisti di Rivoltiamo la Precarietà scopriamo una realtà che si è urbanizzata nella sua “normale eccezione”, ultima evoluzione di un percorso di accoglienza che vale la pena raccontare. Un percorso che attraversa la cattiva gestione di alcune amministrazioni locali e le scelte di un governo nazionale che ha fatto della “emergenzialità” una strategia.

La “seconda accoglienza”

Quando, a febbraio 2014, termina l’emergenza Nord Africa, migliaia di migranti restano per strada con in tasca 500 euro di “buonuscita” e, pur essendo stati parcheggiati per due anni in un centro, senza alcun programma di inclusione lavorativa. Lo stesso sistema d’accoglienza che ha portato nelle mani dei gestori milioni di euro non ha garantito ai migranti alcun tipo di servizio. Molti di quei migranti sono partiti alla volta di Francia e Germania. E chi è rimasto in Italia vaga ancora tra lo sfruttamento lavorativo dell’edilizia e dell’agricoltura, nelle campagne di Puglia, Calabria, Campania e Sicilia. Mentre aumenta in maniera vertiginosa il numero di ghetti ed esplodono quelli già esistenti. Questi centri “informali” sono praticamente invisibili alle istituzioni. Invisibili sono i diritti umani, i contratti di gestione e appalto, i flussi di denaro che da anni vengono “smistati” in via del tutto discrezionale.

In quello stesso febbraio a Bari un gruppo di circa 180 migranti occupa l’ex Convento di Santa Chiara, di proprietà della Sovraintendenza abbandonato da anni, dove non c’è acqua né luce, ma spazio a sufficienza. Alcuni di loro sono transitati per il Cara di Bari e ci sono rimasti anche due anni. Le nazionalità, sempre più o meno le stesse. Molti uomini e alcune donne che provengono da Ghana, Nigeria, Gambia, Somalia, Eritrea, Etiopia, Togo.

Sistemano il posto, le loro condizioni di vita non sono certo dignitose, ma sempre meglio che vivere e dormire per strada. In mancanza di soluzioni del Comune, nasce la Casa dell’ex Rifugiato. I migranti si autorganizzano, imparano l’italiano grazie a volontari. Insieme agli attivisti della città, organizzano manifestazioni e incontri con le istituzioni locali alle quali presentano richieste per l’assegnazione di immobili in disuso da recuperare e destinare ad abitazione per la cosiddetta “seconda accoglienza”.

Lo sgombero umanitario

Tutto fila liscio fino allo scorso ottobre, quando il Comune di Bari notifica un’ordinanza di sgombero su sollecitazione del Patrimonio ai Beni culturali. Lo “sgombero umanitario” avviene il 13 novembre 2014, i migranti vengono trasferiti presso il capannone Ex-Set in via Brigata Regina, un edificio in passato chiuso e bonificato per amianto. All’interno del capannone il Comune ha fatto allestire una tendopoli: 19 tende messe a disposizione da Regione Puglia e Protezione civile, tre moduli/container per i servizi igienici, e la promessa che entro due mesi ci sarebbe stata l’assegnazione di un’abitazione definitiva.

A vederlo quel posto di “dignitoso e decente” ha ben poco. Ci vogliono resilienza e fantasia da parte dei migranti per organizzarsi autonomamente e rendere “vivibile” questa assurda condizione. Le istituzioni, dall’Asl ai referenti del Comune, da queste parti non si vedono mai, gli unici a dare solidarietà sono gli abitanti del quartiere che ogni domenica portano il loro sostegno ai migranti.

L’eterna tendopoli

Moro, punto di riferimento tra i migranti della tendopoli, ci accompagna in una sorta di visita guidata dell’Ex-Set: «In Africa vivevo in una casa di mattoni, qui in Italia ho conosciuto le tende. Ci avevano detto che saremmo dovuti rimanere due/tre mesi, ma siamo qui da oltre 5 mesi. Prima quando eravamo nell’ex convento, non faceva così freddo. Tenevamo tutto in ordine e avevamo aggiustato molti ambienti. Stavamo molto meglio. Guardate questo posto, pensate che è autorizzato». Mentre racconta ci accompagna a visitare un’ala della struttura dove decine di piccioni svolazzano e lasciano escrementi dappertutto: «Qui fa sempre molto freddo. Vedete. Qui è tutto aperto. E ognuno si arrangia come può». L’Ex Set è un edificio alto e con molte finestre rotte. Non ci sono porte. Il tasso di umidità è altissimo, come dimostrano i muri ammuffiti. Eppure nell’accampamento diversi migranti svolgono attività: c’è chi ripara biciclette e chi cuce vestiti. O. viene dalla Guinea e con la sua macchina da cucire sistema con cura gli abiti che gli portano per rammendi o per modificare le misure: «Questo piccolo lavoro mi permette di guadagnare un po’. Qualche vestito lo prendo nella spazzatura, lo lavo e lo aggiusto per rivenderlo. Ci stiamo abituando a stare qui ma non avevo mai vissuto così nel mio Paese. Non pensavo di venire in Europa e finire a vivere in una tenda. Ho sempre vissuto in una casa». Mentre parla, segna con una matita la traccia per tagliare un pezzo di pantalone. È molto abile e per tutto il tempo della visita non ha fatto altro che lavorare. Poco più in là, esce da una tenda K. mentre arriva una folata di vento fortissima che ci ferma nel gelo diversi secondi. Lui, a maniche corte, sorride e dice: «Siamo abituati ma forse è meglio se rientro». Dalla tenda osserva il suo amico che monta le gomme alle biciclette e ci dice: «Lui è bravissimo! Guarda com’è veloce a riparare una gomma. Noi tutti ci muoviamo in bici ed è molto importante che siano sempre in ordine». Moro alza le braccia e sorride: «Strana l’Italia! Abbiamo tutti un permesso di soggiorno ma veniamo sfruttati per lavorare e qualche volta nemmeno ci pagano. A lui (indica un uomo con il cappello che si sta avvicinando, ndr) avevano promesso un contratto di lavoro in un cantiere navale. Gli avevano anche chiesto la copia dei documenti. Questo, diversi mesi fa. Poi lo hanno cacciato perché c’era un controllo della polizia. E lui aspetta ancora i suoi soldi».

In cerca di un’alternativa

«Ci hanno parlato di costruire container», riporta Moro. «Ma perché con la stessa cifra non ci aiutano a trovare posti che possiamo invece ristrutturare noi?». A gennaio i migranti avevano, insieme al gruppo di attivisti di Rivoltiamo la Precarietà, incontrato il prefetto e l’assessore al Welfare e ai Lavori pubblici, per discutere di un’alternativa alla tendopoli. In quell’occasione viene protocollata l’ennesima richiesta per l’utilizzo di spazi comunali in disuso da recuperare in forma di housing. Intanto il prefetto ufficializza la somma di 1,6 milioni di euro del ministero dell’Interno da utilizzare per l’allestimento di “prefabbricati”. Poi, pochi giorni fa, arriva un bando di gara che prevede la costruzioni di moduli prefabbricati per temporanea ospitalità, per l’importo di 600.000 euro. La “localizzazione” è ancora sconosciuta e, di fronte alle proposte ufficiali dei diretti interessati, le istituzioni ripetono che la decisione è ormai presa, e i soldi sono vincolati.

Che in città esistano spazi capienti e senz’altro migliori dell’Ex-Set, per “accogliere” esseri umani, è risaputo. Ci sarebbe l’ex ospedale Bonomo, oppure alcune caserme militari dismesse. O, ancora, i beni confiscati alla mafia: immobili che necessitano di investimenti ben inferiori ai fondi già disponibili, inoltre c’è la piena disponibilità dei migranti a ristrutturare questi spazi da destinare a uso abitativo, permettendo anche una riduzione della spesa. L’associazione Libera si è resa disponibile a supportare questa soluzione. Senza dimenticare che l’ubicazione dei prefabbricati è una scelta fondamentale, che decide se realizzare o meno un nuovo ghetto.