Diritti in fumo. Sull'incendio al Grand Ghetto

Thu, 18/02/2016 - 12:19
di
Lab. Pro/Fuga - Foggia

La notte tra il 14 e il 15 Febbraio un vasto incendio ha distrutto quasi interamente il Grand Ghetto. “A pochi giorni dallo sgombero umanitario!” ha chiosato immediatamente il governatore Emiliano. Non è chiaro se con dispiacere, per non potersi prendere il merito della chiusura dell’ormai ventennale slum nelle campagne della Capitanata, o felice, perché quello che avrebbe dovuto fare con forze dell’ordine, ambulanze e giornalisti al seguito, lo ha fatto il fuoco.

Un incendio divampato in piena notte che, a causa del forte vento, ha spazzato via tutto, ha bruciato case, fatiscenti sì, ma pur sempre tali per chi le abita.
Lavoratori abbandonati a doversi riscaldare alla buona, al freddo e nella solitudine delle campagne, affidandosi ogni notte alla speranza che il vento non soffi sul fuoco come successo nella baraccopoli dei bulgari qualche giorno fa, o che il monossido di carbonio prenda altre vie d’uscita e non t’ammazzi nel sonno come successo ad Andria al cinquantacinquenne senegalese Talla Seck.
Questa volta per fortuna nessuno ci ha rimesso la pelle anche se molti hanno perso tutto ciò che avevano: il tetto, i vestiti, i telefoni e persino i documenti.

Ieri pomeriggio siamo stati al Grand Ghetto. Delle istituzioni e di tutti coloro che vorrebbero far parte del grande business dell’accoglienza nemmeno l’ombra, almeno momentaneamente. Sono passate appena 24 ore e i lavoratori delle campagne sono già di nuovo soli e dimenticati. Abbandonati a fare da sé.

La lezione più grande di dignità umana, tuttavia, caro presidente Emiliano, ce l’hanno data loro.
Ricominciare tutto da capo, non abbattersi, rialzarsi davanti ad una tragedia sfiorata. Come solo chi è abituato a combattere per un futuro migliore sa fare. Tra quelle lamiere e quella cenere, qualcosa non si è consumato, c’è qualcosa che non vuole saperne di farsi polvere, è quell’instancabile voglia di lottare contro un mondo che li ha condannati a vivere una vita maledetta, nella loro Terra Madre, prima, e poi, una volta fuggiti e sopravvissuti al cimitero del Mediterraneo, qui, lontano dalle proprie radici e dai propri affetti, in non-luoghi spesso ostili, in cui la ghettizzazione appare come unica soluzione rassicurante per gli italiani e le loro certezze.

La loro forza e la loro voglia di vivere risorge dalle ceneri. Vederli all'opera con quel sorriso beffardo e quella grinta tipica dei guerrieri e guerriere, di chi non teme nulla e non ha più nulla da perdere. Se non la speranza di ribaltare la propria condizione attuale.

Ieri ci siamo trovati in uno scenario post apocalittico, come un campo di battaglia o una piccola città bombardata. Tuttavia, tra le macerie e il silenzio assordante dei media, diversi gruppi di braccianti hanno già avviato i lavori di ricostruzione del Grand Ghetto, perché quando non hai più niente, avere un tetto è già qualcosa. Come a dimostrare in maniera lampante che laddove l’istituzione si fa assente, le persone si autorganizzano, pronte nuovamente a ricominciare, a ricostruire come sempre hanno fatto nella loro vita. Noi riteniamo che qualsiasi soluzione alternativa al Grand Ghetto debba contemplare tutto ciò che riguarda il lavoro di queste persone. Perché offrire una lamiera di un container o una tenda in un “ghetto di Stato” e poi non metterli in condizione di conservare il lavoro, è essere parte del problema, non della soluzione.

Sappiamo benissimo che tra coloro che hanno appreso di questa triste vicenda ci sono anche quelli che probabilmente, accecati dalla loro idiozia, provano dispiacere che non ci sia scappato il morto. O coloro che con forza tornano a ribadire che quel ghetto va smantellato perché è una vergogna. Benissimo, tutti siamo d’accordo che vivere così è inaccettabile per ogni essere umano, ma in cosa consiste la soluzione che le nostre istituzioni intendono proporre? Perché i soldi da utilizzare sono pubblici, caro Presidente, e anche a noi deve rendere conto del suo utilizzo. Ancora tendopoli per replicare situazioni già fallimentari? No, grazie.
A lei, e a tutti quei politici che sono corsi a rilasciare dichiarazioni alla stampa, consigliamo di ascoltare la voce e le istanze dei lavoratori che abitano questi insediamenti, soprattutto per quanto riguarda le soluzioni di accoglienza che vorrete implementare.

E poi, come per la guerra, l’accostamento della parola umanitario ad uno sgombero è davvero un ossimoro di poco gusto, se lo lasci dire!

No alle tendopoli, no ai container. Documenti, contratti e casa per tutti/e