Sull'economia femminista e la condivisione del lavoro di cura

Tue, 03/04/2018 - 20:16
di
Sandra Ezquerra*

La narrazione economica più occultata di tutte, a partire dalla nascita della società industriale, è stata quella della divisione tra l’economia considerata produttiva e tutti quei compiti di cura della persona e della casa, fondamentali tanto per il sostentamento della vita quanto per il corretto funzionamento del sistema economico. La principale conseguenza di questa frattura imposta, così come anche la subordinazione della sfera riproduttiva a quella produttiva, è stata la cancellazione dall’immaginario collettivo del lavoro di cura come l’asse centrale della vita sociale ed economica; così come nella sua costruzione socioculturale, come dimensione prettamente femminile e, più recentemente, profondamente razzializzata.

Dopo decenni di egemonia delle politiche neoliberali che hanno contribuito alla mercificazione del lavoro di cura e ne hanno aumentato la sua invisibilità, dopo le politiche di austerity per far fronte alla crisi economica che ha imposto tagli e battute di arresto specialmente nell’ambito della riproduzione sociale, il femminismo rivendica l’importanza del lavoro di cura con una forza e una vitalità ritrovata: lo rivendica come elemento fondamentale per la costruzione di una società più giusta e più democratica e rivendica, pertanto, che l'organizzazione sociale debba occupare un luogo privilegiato nel dibattito e nella pratica politica e che la sua responsabilità debba essere assunta collettivamente. Il sostentamento della vita e del lavoro di cura e di attenzione alle persone, tuttavia, non sono state e non sono un elemento centrale delle politiche pubbliche né del dibattito socio economico, e la società non si domanda in modo collettivo come si pratica il lavoro di cura, né come si dovrebbe praticare.
Nella realtà, la gran parte del lavoro di cura è il risultato del lavoro silenzioso ed invisibile dei/delle familiari (specialmente donne) che fanno quotidianamente i salti mortali per stare dietro ai propri figli e figlie e alle persone anziane; questo porta a delle ripercussioni sulla propria salute, sul proprio benessere, sui propri progetti di vita a corto, medio e lungo periodo.

Tale protagonismo è completato in primo luogo dall’esistenza di programmi, servizi e prestazioni pubbliche che sì, sono imprescindibili per ridurre il carico di questo lavoro che grava sulle famiglie, ma che comunque risultano insufficienti e non sempre ne è garantito l’accesso a coloro che ne hanno bisogno e, spesso, tali servizi non sono adatti alle esigenze di chi vi accede; in secondo luogo, non si deve perdere di vista la solidarietà, tra vicine di casa o amiche: un elemento veramente indispensabile per condividere il lavoro riproduttivo, ma che spesso riproduce la divisione sessuale del lavoro che prevale nelle case e si da in un contesto in cui le relazioni di vicinato e la rete comunitaria perdono di intensità e si atomizzano; alla fine risulta cruciale rendere visibile l’incremento della richiesta del lavoro di cura come una nicchia economica in risposta alla crescita della domanda sociale di lavoro riproduttivo.
Questa risposta spesso si traduce nella presunta copertura di una necessità primaria, tale qual'è il lavoro di cura, attraverso la creazione di nuove figure professionali, di precarietà lavorativa e di esclusione sociale.

Davanti a questo scenario aumentano le voci di coloro che chiedono una riflessione generale sull’organizzazione del lavoro di cura. I numerosi studiosi e tecnici che si sono occupati di questo negli ultimi decenni, negli ultimi anni hanno lasciato posto ad un dibattito sulla costruzione di un’agenda politica innovativa e femminista, che pone al centro il lavoro riproduttivo.
Nel segno di un “NOI” che si propone di alimentare questo dibattito, l’obiettivo di questo articolo è quello di aiutare a definire quali dovrebbero essere gli assi principali di una politica femminista e “collettivizzatrice” dei lavori di cura.

Partendo dalla premessa che il lavoro di cura rappresenta una base inevitabile della nostra vita in comune e che, per questo, deve essere messo al centro delle priorità della politica, tanto sociale quanto economica, l’obiettivo di “collettivizzare” il lavoro di cura deve tendere tanto alle persone che lo praticano tanto a quelle che lo ricevono. Si riferisce fondamentalmente, in primo luogo, al riconoscimento del lavoro riproduttivo come una parte centrale della vita socio economica; in secondo luogo, alla promozione della corresponsabilità dell’insieme di attori sociali nel momento in cui si deve garantire il diritto ad un lavoro di cura dignitoso e di qualità; e, in terzo luogo, deve essere una proposta chiara per arrivare a sradicare le diseguaglianze sociali che caratterizzano tanto la sua somministrazione, che la sua ricezione.
 
Il punto di vista dell’Economia Femminista: da dove cominciamo?

L’economia femminista apporta una visione del mondo che cerca il miglioramento delle condizioni di vita delle persone e che prende in considerazione la totalità dei lavoratori necessari alla sopravvivenza, al benestare e alla riproduzione sociale. L’economia femminista rivendica la vulnerabilità e la (inter)dipendenza come connessi alla vita umana e difende la centralità dei lavori di cura come un aspetto fondamentale e imprescindibile dell'economia, delle necessità umane e del tessuto della vita (Carrasco, 2011; Perez Orozco, 2014). Così, di fronte alla distorsione mercantile e monetarista dei modelli economici convenzionali, l’economia femminista rifiuta di limitare i suoi interessi, le sue analisi e i suoi campi di azione alla sfera considerata produttiva e al lavoro propriamente “del mercato” – storicamente considerato solo per uomini – e rivendica gli importanti contributi apportati dal lavoro non economico, non solo al funzionamento dell’insieme del sistema economico, ma soprattutto all’attenzione della vita umana e alla somministrazione del benessere – storicamente considerato di pertinenza femminile.

In questo modo, l’Economia Femminista parte da una doppia premessa che tiene insieme delle implicazioni politiche profonde: 1) esiste una relazione dinamica tra l’ambito produttivo/riproduttivo e 2) la linea che li separa, definita dalla divisione sessuale del lavoro, è permeabile e mutevole (Carrasco, 2018). Quello che succede in qualsiasi delle due sfere ha sempre un impatto nell’altra e le attività che si realizzano in ciascuna di queste non sono storicamente date: cambiano nel tempo (per esempio in tempo di crisi economica) e nello spazio (per esempio in differenti contesti socioeconomici e/o culturali). Le conseguenze politiche di questa doppia premessa sono, prima di tutto, che l’assegnazione storica degli uomini al lavoro produttivo e delle donne a quello riproduttivo non è a-temporale, né prestabilita, come neanche lo sono, in secondo luogo, la frontiera storica tra entrambi gli ambiti né la marginalità sociale, politica ed economica della sfera riproduttiva. In altre parole, possiamo pensare che il lavoro di cura sia una responsabilità primaria tanto degli uomini che delle donne, e possiamo aspirare anche al fatto che venga assunto e realizzato da molteplici attori sociali, in plurimi spazi fisici e istituzionali e sulla base di molteplici e diversi vincoli sociali.

Se analizziamo i dati esistenti tanto della sfera produttiva come di quella riproduttiva, si trova conferma che le donne continuano ancora oggi ad avere un ruolo preponderante nella gestione della cura della famiglia nei diversi momenti del ciclo vitale e nelle diverse situazioni di malattia, incapacità e limitata autonomia funzionale. Secondo l’Istituto di Statistica della Catalogna (IDESCAT) del 2011, il tempo che una donna in media dedica al giorno alla casa e alla famiglia sono 4 ore e 14 minuti, mentre gli uomini 2 ore e 35 minuti. A Barcellona, secondo l’“Inchiesta sulle condizioni di vita e le abitudini della popolazione”, nell’anno 2011 un 30,82% degli uomini dedicava ai lavori di casa e di cura tra una e le dieci ore settimanali e il 34,78% ne dedicava tra le 10 e le 20 ore. Tra le donne, un 27,90% dedicava tra le 10 e le 20 ore, circa il 23,10% tra le 20 e le 40 e circa il 21,60% quaranta o più ore.

Questo scenario permanente nell’ambito considerato riproduttivo, e quindi estraneo alla sfera economica, è profondamente relazionato alla situazione delle donne nel mercato del lavoro e come vengono considerate nella cosiddetta economia reale. L’identificazione del lavoro riproduttivo come qualcosa di pertinenza esclusivo delle donne, così come la sua invisibilizzazione, rafforzano la discriminazione delle donne nel mondo del lavoro e la loro situazione di subalternità rispetto agli uomini. I dati dell’Istituto Nazionale di Statistica (INE) indicano che la media delle ore settimanali dedicate dalle donne al lavoro retribuito è di 33.8%, contro il 39.7% degli uomini. Questo si relaziona con il fatto che il 25.2% delle donne sono impiegate, nella realtà, a tempo parziale, contro il 7.9% degli uomini, e questo a sua volta è correlato alla divisione sessuale del lavoro nell’organizzazione familiare del lavoro di cura: di tutte le persone impiegate part-time nel 2016, il 18.6% erano donne che davano come giustificazione il lavoro di riproduttivo che dovevano svolgere per la loro famiglia, e altri impegni familiari o personali. Gli uomini con contratto part-time che hanno dato la stessa spiegazione erano solamente l’1.8% del totale degli intervistati.

Questa articolazione, segnata dalle differenze di genere, tra l’ambito del lavoro di cura non retribuito e il mercato del lavoro provoca, altresì, diseguaglianze salariali tra donne e uomini. In Catalogna, gli studi più recenti indicano che la differenza salariale attualmente è del 26%. La combinazione di questa situazione provoca la femminilizzazione della povertà e della precarietà, sia durante la vita adulta che durante la vecchiaia. Così, secondo i dati del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, nel 2016 4.242.652 uomini godevano della pensione di anzianità, contro le 3.290.371 donne. Il valore medio della pensione di un uomo era di 1.132,13 euro, delle donne di 896,27 euro. Queste diseguaglianze derivano da un più alto tasso di rischio di povertà e nelle maggiori mancanze materiali tra le donne adulte rispetto agli uomini.

La relazione tra l’ambito del lavoro riproduttivo familiare e del lavoro domestico e l'ambito dell’economia considerata produttiva è, secondo una prospettiva di genere, una dialettica; poiché, se la costruzione sociale del lavoro di cura come qualcosa di esclusivamente femminile promuove la disuguaglianza di genere nel mercato del lavoro, la situazione di subalternità delle donne nel mercato del lavoro favorisce a sua volta, in molti casi, che nelle situazioni di bisogno di cura della famiglia siano proprio le donne a ridurre la loro giornata lavorativa o che abbandonino le loro aspirazioni professionali.
È per questo che risulta fondamentale prendere in considerazione tutti questi fattori, attaccare l’ambito riproduttivo e produttivo in maniera congiunta e comprendere che la situazione sociale odierna delle donne, così come l’organizzazione sociale del lavoro riproduttivo, non possono essere trasformati a meno che non si introducano dei cambiamenti in entrambi gli ambiti contemporaneamente.

Oltre a considerare la sfera produttiva e quella riproduttiva come campi della vita sociale in costante interazione, l’Economia Femminista denuncia il protagonismo sociale ed economico della prima, a partire dalla quale si organizza anche il resto della sfera sociale. Questa denuncia ha ripercussioni sull’attacco che si attua dal femminismo ad una riorganizzazione sociale del lavoro di cura, secondo una proposta di cambiamento che viene fatta per promuovere diverse trasformazioni nei ruoli di genere e nell’organizzazione del lavoro di cura. Così, seguendo il punto di vista di quello che si chiama il femminismo dell’uguaglianza, l’attacco si realizza soprattutto attraverso una promozione dell’occupazione femminile. Da una prospettiva più vicina al cosiddetto femminismo della differenza, invece, si mira, principalmente, a sostenere il lavoro di cura informale.
Il problema principale del primo approccio è che corre il rischio di considerare il maschile e il mercato del lavoro come la norma, ponendo le donne in una situazione di subalternità e imponendo un criterio fuorviante.

Nancy Fraser (2015) si riferisce a questo approccio come modello di persona lavoratrice totale, che consiste a grandi linee alla sussunzione delle donne nel mercato del lavoro e nell’economia considerata produttiva, centrale nella vita economica, mentre il lavoro di cura e quello della casa non retribuito (il campo del lavoro riproduttivo) continuano a ricoprire un ruolo marginale. La divisione sessuale del lavoro e delle sfere si azzera solo nella misura in cui le donne si uniscono al mercato del lavoro e produttivo, e non ci si interroga sull’identificazione delle donne con l’ambito riproduttivo e degli uomini nel produttivo. La sussunzione delle donne nel mercato del lavoro come spinta esclusiva (o principale) della riorganizzazione sociale del lavoro di cura e della parità di genere presenta limiti profondi poiché, come sappiamo, parte da una situazione di svantaggio rispetto agli uomini e, se vi si somma la scarsa attenzione sociale e politica che il lavoro riproduttivo riceve nell’attualità, questa strategia si traduce in un aumento del carico complessivo del lavoro sulle donne – si uniscono al mercato del lavoro e contemporaneamente continuano ad essere le uniche responsabili del lavoro riproduttivo – continuando a riprodurre la divisione sessuale del lavoro esistente e continuando a considerare centrale l’economia produttiva e marginale e invisibile quella riproduttiva.

Dall’altro lato, anche l’approccio più vicino al femminismo della differenza può risultare problematico poiché, spesso in maniera non intenzionale, può rispondere a nozioni basiche di femminilità, rafforzando così gli stereotipi e confinando le donne alle differenze di genere esistenti. Nancy Fraser (2015) la definisce modello di uguaglianza della badante, che si traduce in un appoggio formale, principalmente, alle prestazioni economiche e al lavoro di cura informale realizzato nella sfera riproduttiva della famiglia. Se questo, in qualche modo, realizza un minimo aumento dell’importanza data al lavoro di cura e riproduttivo, il lavoro produttivo neanche in questo caso perde la sua centralità economica e sociale.
Per altro verso, a differenza del modello del femminismo dell’uguaglianza, non punta tutto sulla sussunzione delle donne nel mercato del lavoro come passaggio fondamentale del raggiungimento della parità di genere, però l’assenza di un’indagine sulla divisione sessuale del lavoro continua a rendere invisibile il lavoro riproduttivo nell’ambito familiare e della casa, così come la reclusione delle donne in questo ambito.

In definitiva, una riorganizzazione sociale del lavoro di cura che mira anche ad una parità di genere non può passare dalla sussunzione delle donne al modello maschile e capitalista del lavoro, né può promuovere cornici normative che continuano a marginalizzare la sfera riproduttiva dalla vita economica e che perpetuano la centralità della capacità e della responsabilità del lavoro di cura come elementi innati nelle donne.
Non ci si può neanche limitare ad intervenire nel campo del lavoro produttivo o in quello riproduttivo. Abbiamo bisogno di una lettura di insieme.

Davanti a questo dilemma, si alzano molte voci tra il femminismo, tra cui quella della stessa Fraser, che spingono per reinterpretare concettualmente la parità di genere, considerandola come un concetto complesso e multidimensionale che ingloba una pluralità di principi normativi. Ciò comporta il dover trasformare radicalmente il modello dominante di cittadino e soggetto di diritto – fondamentalmente maschio – e spostare la centralità dell’economia produttiva dalla vita sociale, politica ed economica. Di fronte al modello di “persona lavoratrice totale” e quello di “uguaglianza della badante”, Fraser (2015) propone di alterare le gerarchie economiche attualmente esistenti e si pone come obiettivo il raggiungimento del modello di persona che svolge lavoro di cura totale. Questo richiede una conversione dei modelli di vita attualmente considerati femminili nella regola per tutti e tutte, così che il mercato del lavoro sia adatto a lavoratori e lavoratrici retribuiti, che siano anche uomini e donne che svolgono lavoro riproduttivo, come risultato dello smantellamento della opposizione patriarcale e capitalista tra il lavoro produttivo e quello di cura; richiede inoltre l’integrazione di attività separate nell’attualità, l’eliminazione della sua impronta di economia mercantilista e di genere e, quindi, la riduzione dell’importanza da un lato delle differenze di genere, dall’altro del mercato come principio fondamentale dell’organizzazione sociale.

Per una condivisione del lavoro di cura: come realizzarla e a cosa miriamo?

L’esplosione della crisi del lavoro di cura e della crisi economica ci ha posto davanti ad un dibattito storico: la messa in crisi del modello tradizionale della responsabilità del lavoro riproduttivo può risultare una riorganizzazione conservatrice o, da questa crisi, può nascere una nuova organizzazione sociale del lavoro riproduttivo basata su valori democratici. Se vogliamo perseguire questa seconda strada, dobbiamo cominciare a lavorare per un modello di lavoro di cura che superi le proprie mancanze e pregiudizi storici e che abbia una chiara vocazione trasformatrice.

Secondo Nancy Fraser (2015), una proposta che miri al cambiamento del lavoro riproduttivo è quella che, di fronte a semplici correttivi destinati a limare le disuguaglianze basate sugli accordi sociali vigenti senza alterare la cornice che li determina, pone un progetto per la ristrutturazione di questa cornice.
Si tratta di mettere al centro dell’agenda politica la colletivizzazione dell’insieme delle relazioni sociali, economiche, istituzionali e simboliche che determinano la organizzazione sociale del lavoro di cura nella nostra società. A partire da questo, abbiamo bisogno di costruire un quadro analitico, ma anche strategico, chiaramente femminista, che generi le fondamenta di questo progetto, l’implementazione e la valutazione di una politica pubblica trasversale che abbia come sua priorità la collettivizzazione del lavoro di cura (Ezquerra y Mansilla, 2018).

Realizzare una proposta comprensiva per condividere il lavoro di cura comporta non solo la negazione della centralità del lavoro produttivo su quello riproduttivo, ma anche evitare di dover scegliere tra uguaglianza e differenza, tra redistribuzione e valorizzazione: una combinazione di tutto questo presenta un maggior potenziale di trasformazione. Un possibile cammino verso la collettivizzazione del lavoro di cura, in questo modo, può essere quello di attivare in maniera simultanea e trasversale due assi strategici fondamentali: il riconoscimento della centralità sociale del lavoro riproduttivo e la condivisione delle responsabilità di questo.

Secondo la Piattaforma di Azione di Pechino, riconoscere il lavoro di cura significa valorizzarlo socialmente e simbolicamente e questo passa, in primo luogo, dal rendere visibile la sua natura, le sue dimensioni e il ruolo che gioca in determinati contesti. Riconoscere il lavoro di cura, a sua volta, comporta prendere in considerazione l’insieme dei suoi contributi per la società tutta e l’economia, senza perdere di vista chi rende possibile tutto questo; comporta anche che non debba essere tralasciato nella progettazione delle politiche pubbliche; comporta anche metterlo a confronto, tra le altre cose, con dei sondaggi sull’uso del tempo. Riconoscere la centralità sociale del lavoro di cura significa, anche, generare nuovi discorsi e nuovi immaginari con l’obiettivo di indagare le relazioni di potere esistenti nella loro organizzazione attuale e di eliminarli come un qualcosa di superfluo della vita moderna, per rendere il lavoro di cura un’attività fondamentale in una società che ha come priorità l’interdipendenza e la sostenibilità della vita.

Riconoscere la centralità sociale del lavoro di cura comporta, in secondo luogo, rendere visibile come la sua attuale organizzazione sia profondamente insostenibile e come generi costantemente il rischio di esclusione sociale tra le persone che lo svolgono, indipendentemente se siano o meno retribuite. Questo rischio di esclusione sociale prende molteplici forme e si traduce spesso in conseguenze negative per la salute, in marginalizzazione sociale, in mancanza di tempo per se e in difficoltà nello sviluppare progetti di vita propri da parte di chi si occupa del lavoro riproduttivo, come risultato di una dedizione totale alla cura di un membro della famiglia.
Il rischio di esclusione sociale si traduce anche in condizioni sociali e lavorative caratterizzate dalla precarietà per buona parte delle persone che si dedicano al lavoro di cura retribuito. In definitiva, riconoscere la centralità del lavoro di cura passa per il garantire l’accesso a un lavoro riproduttivo dignitoso che non si ottenga sacrificano i diritti di nessun'altra persona (si veda Perez Orozco, 2016).

Anche se è stata la grande assente a Pechino, la redistribuzione del lavoro di cura ha acquisito negli anni sempre più spazio nei dibattiti analitici e teorici. In un primo momento, quando si parlava di redistribuzione del lavoro di cura, questa si riduceva alla divisione della responsabilità del lavoro di cura e di quello riproduttivo tra uomini e donne nell’ambito della famiglia. Era, in altre parole, un sinonimo di una ripartizione equitativa da una prospettiva di genere della responsabilità e della carica di lavoro tra le singole persone e, ancora oggi, è questo l’approccio che continuano a seguire le proposte femministe di ristrutturazione dell’organizzazione del lavoro di cura di taglio più liberale.

Negli ultimi anni, sicuramente, si è problematizzato il fatto che la maggior parte del lavoro di cura di cui le persone hanno bisogno si dia nell’ambito della famiglia. L’obiettivo politico di una condivisione del lavoro riproduttivo che si propone di contribuire a riconoscere la sua importanza e la sua centralità socioeconomica deve intendere la sua redistribuzione come qualcosa che deve realizzarsi anche fuori i confini dell’intimità della famiglia, e coinvolgere la società nel suo insieme.
E così non solo perché ci sono sempre più famiglie dove non è possibile una maggiore redistribuzione (con alti sovraccarichi di lavoro di cura e/o con limitate risorse economiche per “comprare” il lavoro di cura) o dove la redistribuzione non è proprio possibile in assoluto (le famiglie monoparentali), ma perché il riconoscimento della sua centralità sociale comporta che l’insieme di attori e istituzioni sociali (la comunità, le amministrazioni pubbliche e il settore privato) la assumano e ne siano responsabili. In altre parole, la proposta di togliere alla famiglia una parte del lavoro di cura non comporta una sua svalutazione, tutto il contrario. È arrivato il momento di superare politicamente il termine “redistribuzione” e parlare di “socializzazione”, già che non cerchiamo una – mera – divisione più equa del lavoro di cura tra uomini e donne a livello individuale, ma la sua collettivizzazione come risultato della sua grande importanza e valore.

La condivisione delle responsabilità del lavoro di cura, tra l'altro, include molto di più che la redistribuzione di compiti concreti, perché include anche l’opportunità di scambiarsi dubbi, saperi, esperienze e stati d’animo, un'opportunità che permette di ridurre l’isolamento e la solitudine di coloro che di solito ricevono o svolgono lavoro di cura. Questa condivisione, inoltre, non deve intendersi come assoluta, ma può cambiare a seconda della situazione; neanche deve intendersi come una proposta per l’eliminazione totale del lavoro di cura dalla famiglia. La condivisione del lavoro di cura, nonostante ciò, deve necessariamente portare ad una riduzione del protagonismo – e consequenziale sovraccarico – della famiglia, in particolar modo delle donne.

Dubito che sia possibile realizzare questo doppio passo nel cammino verso la condivisione del lavoro di cura partendo da una sola anima del femminismo o da un unico campo di azione. Abbiamo urgente bisogno di un’analisi di insieme delle proposte attualmente esistenti nel femminismo per riorganizzare il lavoro riproduttivo e, senza dover scegliere la migliore tra queste, unirle e superarle con l’obiettivo di socializzare il lavoro di cura. È certo che una politica di riorganizzazione del lavoro riproduttivo passa per la decostruzione della centralità sociale, economica e politica dell’economia considerata produttiva e del mercato del lavoro e, sebbene dobbiamo evitare il perpetuarsi del sovraccarico sofferto dalle famiglie per poter curare i propri cari, non è meno ovvio che abbiamo urgente bisogno di una profonda trasformazione del mercato del lavoro per garantire il sostegno alla vita, appoggiare e sostenere le persone che svolgono il lavoro di cura. Abbiamo bisogno di uno sguardo che ci permetta di vedere come il lavoro riproduttivo attraversi l’insieme delle sfere sociali e cominciare da lì: condividere il lavoro di cura significa aspirare a incidere in ciascuna di queste in modo coordinato e trasversale, senza esitare di fronte alle contraddizioni e scommettendo sulle complessità.

Sandra Ezquerra è direttrice della Cattedra UNESCO Donne, Sviluppo e Cultura dell’Università di Vic - Università Centrale della Catalogna e fa parte del Comitato Consultivo di Viento Sur.

Riferimenti
Carrasco, C. (2011) “L’economia del lavoro di cura: approccio attuale e nuove sfide”. Economía Crítica, 11, 205-225.
Carrasco, C. (2013) “Il lavoro di cura come spina dorsale della nuova economía”. Cuadernos de Relaciones Laborales, 31(1), 39-56.
Ezquerra, S. y Mansilla, E. (2018) Economia de les cures i política municipal: cap a una democratització de la cura a la ciutat de Barcelona. Barcelona: Ajuntament de Barcelona.
Fraser, N. (2015) Fortune del femminismo. Madrid: Traficantes de Sueños.
Pérez Orozco, A. (2014) Subversión feminista de la economía. Aportes para un debate sobre el conflicto capital-vida. Madrid: Traficantes de Sueños.
Pérez Orozco, A. (2016) “Políticas al servicio de la vida: ¿políticas de transición?”. En Fundación de los Comunes (ed.) Hacia nuevas instituciones democráticas. Diferencia, sostenimiento de la vida y políticas públicas. Madrid: Traficantes de Sueños.

*Fonte articolo: http://vientosur.info/spip.php?article13539
Traduzione a cura di Giulia Vescia