Spazi economici di sovversione femminista?

Mon, 05/06/2017 - 18:15
di
Amaia Pérez Orozco

Pubblichiamo questa lunga e stimolante riflessione di Amaia Pérez Orozco, dottoressa in Economia e attivista femminista, pubblicata sul numero 150 della rivista Viento Sur, consultabile qui, preceduto da un'introduzione di Nadia De Mond.
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Una lettura nuova ma non compiuta

Le elaborazioni delle ecofemministe costruttiviste – per la maggior parte di origine ispanica o latinoamericana – risultano estremamente interessanti per la loro capacità di operare un rovesciamento del pensiero androcentrico occidentale, in particolare per quanto riguarda i fondamenti del nostro sistema economico.
La messa in discussione del pensiero dominante raggiunge una dimensione di tale profondità da essere per me paragonabile solo – in campo femminista – con l'emergere in Italia, negli anni Ottanta, del cosiddetto "pensiero della differenza", con la differenza che quest'ultimo – che ha spopolato in tutti gli ambiti per trent'anni – era in netta opposizione a un approccio materialista storico e dialettico, nonché a un'ottica di costruzione di un soggetto collettivo di cambiamento.
Frutto del suo tempo e in totale sintonia con la nuova ondata del movimento femminista pienamente in atto, Amaia Orozco integra perfettamente nella sua elaborazione l'intersezione di classe, razza, genere e altri assi di oppressione. Con un'enfasi particolare e costante però sulla lettura di genere come opzione metodologica, nell'analisi delle contraddizioni del sistema attuale nonché nell'immaginarne uno completamente diverso. Mettendo la riproduzione collettiva della vita al centro, la "questione delle donne" non è mai aggiuntiva ad un'analisi economica, politica e sociale altra. Mette le donne al centro e parla al mondo. Una visione ginocentrica?
È affascinante e convincente la sua metafora dell'iceberg, che denuncia l'inadeguatezza dell'economia maschile, borghese ma anche marxista (in gran misura), che ne prende in esame solo l'epicentro, mentre tutte le fondamenta su cui riposa, sommerse, rimangono invisibili o meglio invisibilizzate. O per lo meno escluse da quel che si considera essere l'Economia. Questo nuovo paradigma – perché di niente di meno si tratta - che sfida a mettere in discussione i nostri concetti economici di base – il lavoro, il valore, la produzione – rivela la ristrettezza e l'inadeguatezza dei modelli di interpretazione economica finora esistenti.
Su questo modello di interpretazione molto è stato scritto e elaborato dalle ecofemministe costruttiviste in questo inizio di secolo, fornendoci nuovi attrezzi per l'analisi e mattoni per un nuovo modello – una utopia realizzabile - di società che il nome socialista, o anche eco-socialista non è più adeguato a coprire.
Non si tratta di una teorizzazione a freddo, avulsa dalla realtà sociale, ma anzi in stretto collegamento con le migliaia di esperienze di costruzione di un’altra economia più o meno inserite, accomodate, oppure contrastanti, fuoriuscite, confliggenti con il sistema attuale. E quando dico “economia” parlo ovviamente della concezione femminista dell’economia ossia della sfera riproduttiva quanto della sfera produttiva ad essa collegata e possibilmente subordinata.
Ma come lo sottolinea Amaia Orozco nel testo, per avere valore di paradigma radicalmente alternativo al sistema capitalista eteropatriarcale queste sperimentazioni già in atto devono porsi nell’orizzonte di una revisione radicale dei valori che sottendono il nostro convivere sociale e ambientale, e della nostra stessa esistenza. Per che cosa vale la pena vivere? Quanto di questa vita – limitata – vogliamo dedicare alla produzione di cose materiali e quanto alla cura delle relazioni umane, alla conoscenza del mondo e della biosfera che ci circonda, alla contemplazione, all’arte e al benessere psicofisico? In che modo raggiungiamo questi obiettivi?

Ora, una volta enfatizzata l’importanza epocale di questo filone di pensiero, vorrei sollevare alcuni aspetti critici che tendo a vedere, non a mo’ di contrapposizione ma come possibile terreno di incontro e completamento di un approccio politico strategico proprio della nostra corrente marxista rivoluzionaria.
Il posizionamento anticapitalista di teoriche ecofemministe come Amaia Orozco, Yayo Herrero e altre è esplicito. Infatti risulta più volte anche in questo testo, quando si dice che "non si tratta semplicemente di portare alla luce l’invisibile ma di far esplodere l’iceberg", e che "bisogna togliere potere e risorse ai circuiti di accumulazione di capitale, mettendo in discussione la proprietà privata e il denaro".
Però il tassello mancante in questa corrente di pensiero è il come. La loro debolezza si colloca sul piano politico strategico. Come si fa a fare esplodere l’iceberg? Detto in modo meno metaforico: come si rompe il monopolio dei poteri forti sull’economia? Non si tratta di un mostro astratto, e non meglio identificabile, che lei chiama ironicamente “questa Cosa scandalosa”, ma di centri economico-finanziari intrecciati con istituzioni politico-militari nazionali e transnazionali precisi.
Abbiamo pienamente assunto la lezione del Novecento per cui non basta “occupare” gli spazi di potere istituzionale, locali o (trans)nazionali, attraverso la partecipazione elettorale o la conquista rivoluzionaria, ma che al contrario questo potere va costruito dal basso con organismi e meccanismi di autogestione. Ma allo stesso modo questi organismi di potere popolare dal basso in sé – senza lo scontro con lo Stato esistente – non bastano per sovvertire il sistema economico (e di conseguenza, sociale, culturale, ideologico) esistente. Dobbiamo approfondire la nostra riflessione, e la nostra pratica, sulla combinazione di questi due livelli – quello dell’ampliamento degli spazi di contro-potere, qui e ora, con quello dello scontro frontale che possa abbattere le strutture esistenti – di costruzione di un’alternativa economica-ecologica, a partire dai rapporti di forza che riusciamo a mettere in campo.
Amaia cita tre livelli di sovversione dell’economia: 1) quello macroeconomico, che consiste fondamentalmente nelle pratiche di resistenza alla penetrazione della logica del profitto in tutti i territori e in tutte le sfere della vita attraverso megaprogetti, privatizzazioni e politiche di austerità, accumulazione per spoliazione, ecc. e subordinazione del lavoro riproduttivo alla salvaguardia di questo modo di accumulazione; 2) quello medio, ossia quello che di solito consideriamo la sfera delle lotte sociali e politiche per la sopravvivenza e il miglioramento delle condizioni di vita; quello che lei chiama “strappare pezzetti di vita al capitale; 3) quello micro che comprende pratiche economiche che sovvertono il sistema a partire dal quotidiano.
In questo ambito è interessante vedere come il testo si rapporti alle pratiche di lotta esistenti con una prospettiva di superamento del quadro dato. Amaia riconosce per esempio – contrariamente ad altri ambiti postoperaisti – quello che è solo apparentemente una contraddizione e cioè la lotta per migliorare le condizioni di lavoro salariato, mentre l’orizzonte storico è quello dell’abolizione del salariato e del superamento della distinzione tra lavoro produttivo e riproduttivo. Oppure la difesa, critica, del pubblico – seppur burocratizzato, calcato sulla struttura della famiglia nucleare etero patriarcale, normativo – mentre lavoriamo per una versione qualitativamente diversa del “comune”.
In quale modo i nostri spazi autogestiti e de-mercificati si possono inserire, strategicamente, nella battaglia per il rovesciamento del sistema dominante invece di essere solo spazi effimeri di resistenza e di allenamento all’utopia? Come le nostre esperienze di economia sociale e solidale possono funzionare secondo criteri femministi? Garantendo la propria sostenibilità finanziaria e anche la propria sostenibilità riproduttiva, entrando e uscendo da un quadro sistemico di sfruttamento economico, di alienazione esistenziale e di sopraffazione lungo vari assi di oppressione? Come aboliamo la divisione sessuale dei lavori in questi spazi – provvisoriamente e parzialmente – liberati, così come nelle relazioni personali e negli ambiti microeconomici delle “famiglie di elezione”? Sono queste le domande che ci sembra interessante affrontare insieme. (N. D. M.)
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Spazi economici di sovversione femminista?

Sovvertire il sistema economico è una condizione indispensabile per indirizzare la transizione eco-sociale in cui ci troviamo verso l'orizzonte del buon vivere collettivo. Questa sovversione va operata a partire dalla confluenza di una molteplicità di prospettive critiche, tra cui il femminismo.[1] Questo testo ripercorre alcune delle proposte chiave di sovversione economica a partire da questa prospettiva politica. Prima di cominciare bisogna però segnalare che non dà conto di tutte le proposte esistenti e che sorge da uno sguardo molto occidentale, bianco e urbano. Si colloca con volontà di dialogo: per essere completato, messo in dubbio, scomposto...

1. Sovversione dell’economia?

Sovvertire l’economia presuppone agire contro il sistema economico oggi egemonico, che si impone tramite la violenza e la seduzione. Questa economia è capitalista, ma non solo: è anche etero-patriarcale, dannosa per l’ambiente, colonialista e razzista. È quello che a volte scegliamo di chiamare, in modo breve e ironico, "questa Cosa scandalosa".
"Questa Cosa scandalosa" si fonda su di un conflitto strutturale e irrisolvibile tra i processi di accumulazione di capitale e la sostenibilità della vita. Gli affari si fanno sfruttando vite umane, spogliando la vita del pianeta e ponendo l’insieme del vivente a rischio sistemico di distruzione. Per mantenere a galla questo sistema biocida, la responsabilità di sostenere la vita viene demandata alle sfere economiche invisibilizzate. La vita si realizza mediante lavori che non esistono, in ambiti che non sono economici, per opera di soggetti che non sono soggetti politici. "Questa Cosa scandalosa" assomiglia ad un iceberg: nel suo epicentro ci stanno i mercati capitalistici, retti da una logica di accumulazione associata alla mascolinità bianca e dominati dal soggetto privilegiato del sistema, l'Uabbe (uomo adulto bianco borghese eterosessuale). Nella parte occulta ci stanno i processi che sostentano la vita. Questo iceberg ruota attorno a un asse eteropatriarcale e colonialista che definisce i livelli di visibilità e i meccanismi di invisibilizzazione.
Sovvertire l’economia non vuol dire semplicemente portare alla luce l’invisibile ma far esplodere l’iceberg. Questo implica almeno due movimenti strategici. Il primo consiste nella costruzione di spazi economici dove si assume una responsabilità collettiva di concretizzare le condizioni di possibilità della vita, garantendo il rispetto dei limiti biofisici del pianeta. Il secondo è costruire un'altra idea stessa della vita che meriti di essere vissuta: colmare di significato la nozione del buon convivere che opera una rottura centrale con la nozione scandalosa del benessere che abbiamo oggi e che garantisca l’universalità e la singolarità come criteri etici irrinunciabili.
Il cammino verso questa sovversione richiede la decrescita in un doppio senso: da un lato la decrescita nella sfera materiale dell’economia. Nell'attuale situazione di collasso ecologico, iniziare a vivere con minor consumo energetico e materie prime, e meno produzione di rifiuti, non è un’opzione ma una necessità. Ciò che è opzionale è come distribuire e affrontare questa riduzione. Dall’altro questa decrescita metabolica deve andare di pari passo con il fatto che la logica della crescita cessi di essere il principio fondante del sistema. Materialmente parlando questo significa togliere il potere e le risorse ai circuiti di accumulazione di capitale, mettendo in discussione strutture come la proprietà privata e il ruolo del denaro. Questo attacco alla logica dell’accumulazione incide sulla parte visibile dell’iceberg. E che facciamo con quella invisibilizzata? È lì che risiede il senso primo e ultimo della sovversione: si tratta di de-privatizzare e de-femminilizzare la responsabilità di sostenere la vita; che questo diventi l’asse su cui ruota un’economia differente.
A partire da qui ci domandiamo che economia futura immaginiamo. Immaginiamo un sistema socioeconomico che abbia fatto pace con la biosfera[2] e il cui asse sia la creazione collettiva di condizioni che consentano un buon convivere universale e alternativo all'attuale. Immaginiamo un'economia in rete che risponda alle diverse scale di interdipendenza, combinando spazi pubblici (che non sono quelli istituzionali burocratici di oggi), spazi del comune e unità economiche più piccole che potremmo chiamare famiglie di elezione. Non immaginiamo un’economia monolitica, ma diversificata, in cui si connettano spazi di produzione per l’autoconsumo e spazi di scambio tanto monetizzato come non. Immaginiamo un’economia de-complessificata e ri-localizzata, in cui recuperare il nesso diretto tra i nostri atti economici e le loro conseguenze, e avanzare verso la sovranità e l’autonomia economiche (che non vuol dire né autosufficienza né autarchia). Una sovranità che si incarna nel territorio corpo-terra.[3]
Immaginiamo altre economie future in cui si realizzi un doppio processo: un avanzamento verso forme di soddisfazione dei bisogni che siano collettivi e de-mercificati; in cui il denaro sia sempre meno centrale e le forme di gestione della vita sempre meno individuali. Questo richiede la distruzione delle attuali forme egemoniche di lavoro (il lavoro salariato e la sua altra faccia, quella della cura femminilizzata, privatizzata e invisibilizzata) e della divisione sessuale del lavoro in cui si articolano. E per questo bisogna determinare quali sono i lavori imprescindibili per ottenere il buon vivere collettivo, costruendo altre forme di valorizzazione e di distribuzione in rottura frontale con gli attuali parametri capitalisti, antropocentrici, eteropatriarcali e colonialisti.
Siamo già in marcia verso queste altre possibili economie differenti? L’idea fondamentale di questo testo è sì. A seguire si raggruppano le proposte su tre livelli: il macro (riferito all’insieme del sistema economico), il medio (che si riferisce alle istituzioni economiche specifiche) e il micro (quello delle esperienze concrete delle persone).

2. Proposte e pratiche di sovversione a livello macro

A questo livello si trova la resistenza alla penetrazione della logica di accumulazione in nuovi territori e alle nuove forme di accumulazione per spossessamento. Stiamo parlando della difesa dei commons, la lotta contro il (neo)estrattivismo e la difesa dei servizi pubblici come meccanismi collettivi di gestione dei rischi del vivere. Parliamo della lotta contro i trattati di libero commercio e di investimento, quelli già in atto e le strutture che li sostengono (Omc, Fmi...) così come della nuova ondata che è in agguato a tutti i livelli: globale, regionale e bilaterale (Tpp, Tisa, Ttip, Ceta...). Parliamo i de-finanziarizzare l’economia; di svincolare le finanze pubbliche dalla logica finanziaria e dei corsetti austericidi; di disobbedire alla legalità che impone le priorità mercantili (come l’articolo 135 della Costituzione); di andare contro la logica del deficit zero; di svincolare i tempi dei bilanci pubblici dai tempi dei mercati.
Una proposta forte è quella dell’audit cittadino sul debito. Si tratta di determinare quale parte del debito pubblico sia illegale e quale illegittima in termini sociali (includendo criteri femministi) e ambientali. Di conseguenza non dobbiamo niente, non paghiamo. Bisogna anche identificare e saldare i debiti storici contratti al largo della storia colonialista.
Dobbiamo lottare affinché i lavori non retribuiti cessino di essere la rete di salvataggio invisibile del sistema. Anche se a volte è difficile identificare come ciò si materializzi, è imprescindibile denunciarlo, portando alla luce il gigante economico che un’economia eteropatriarcale e razzista occulta, e evitando che il conflitto capitale-vita si risolva nascondendolo.
Il sistema di indicatori che è supposto di darci una fotografia dell’economia e della sua evoluzione è un aspetto chiave. È urgente disporre di un altro sistema che non sia fatto a immagine e somiglianza di "questa Cosa scandalosa". Il femminismo può contribuire con una ricca esperienza di utilizzo di indicatori non androcentrici, compreso la misurazione e l’uso dei tempi.

3. Proposte e pratiche di sovversione a livello medio

Sono molteplici le cose che si stanno facendo ed esigendo a questo livello. Menzioniamone qui alcune.

3.1. Mercato del lavoro

È enorme il ventaglio di proposte per combattere le molteplici discriminazioni lavorative che intessono genere, status migratorio, etnia, orientamento sessuale, identità di genere, diversità funzionale, eccetera, nonché per esigere condizioni di lavoro degne. Ci sono lotte concrete e immediate come, nel contesto spagnolo, la deroga delle ultime riforme lavorative o, a livello globale, che i 164 paesi che al giorno d’oggi non lo hanno fatto, ratifichino la Convenzione 189 dell’Oil sul lavoro dignitoso per le lavoratrici (e i lavoratori) domestiche.
La lotta principale per quel che riguarda il mercato del lavoro non consiste nel denaro ma nella lotta contro il lavoratore fungo richiesto dal mercato: colui che non ha necessità né responsabilità di cure, ma che si presenta emotivamente e fisicamente sano ogni giorno, pienamente disponibile per le necessità dell’impresa. Nella lotta contro questo personaggio, l’esigenza della conciliazione è fondamentale. Questi diritti [alla cura, n.d.t.] devono essere finanziati esigendo dalle imprese capitaliste che paghino per la riproduzione della manodopera che utilizzano, sotto la forma di contributi alla sicurezza sociale e di imposte progressive sui profitti.
Lottando per questi diritti dobbiamo tenere in mente varie cose: devono rispondere a vincoli di cura differenti e non solo a quelli della famiglia nucleare. Bisogna evitare che accentuino la responsabilità delle donne per la cura, rivolgendosi a esse de iure o de facto. E dobbiamo impedire che si usino per nascondere il conflitto capitale-vita. Non possono, per esempio, venirci a parlare di conciliazione per giustificare l’ampliamento degli orari commerciali. In ultima istanza sappiamo che la conciliazione è falsa; se un’impresa capitalista consentisse veramente la conciliazione non sarebbe più redditizia, anzi, non sarebbe capitalista. Intanto, gestiamo la tensione e strappiamo pezzetti di vita al capitale, restituendoli a noi stesse e noi stessi.
Una rivendicazione chiave è la riduzione dell’orario di lavoro. Affrontiamo la questione da un diverso punto di vista: calcoliamo il tempo dei lavori non remunerati che dobbiamo fare, distribuiamolo e vediamo quanto ne rimane per il mercato. Questa riduzione non può implicare una riduzione della massa salariale bensì una revisione della struttura salariale: incremento dei salari minimi, ridefinizione del valore dei lavori in funzione del loro contributo ai processi vitali e stabilimento dei criteri collettivi che determinano quali differenze salariali si considerano legittime e illegittime. O dovremmo persino parlare di salari uguali per tutte e tutti, se le nostre vite valgono ugualmente?
Il fatto di lottare per dei diritti lavorativi non ci deve confondere rispetto all’obiettivo di fondo: abolire il lavoro salariato in quanto lavoro alienato, sottoposto alla logica dell’accumulazione e che possiede un lato occulto, quello della cura femminilizzata. Il nostro orizzonte è quello di ricostruire l’idea di lavoro e di porre i lavori al servizio del buon vivere collettivo. L’emancipazione non sta nel posto di lavoro; la sovversione sta nella riorganizzazione radicale dei lavori socialmente necessari.

3.2. Politica fiscale e difesa critica del pubblico

Esigiamo una riforma fiscale profonda e progressiva (oltre a lottare contro la frode fiscale e i paradisi fiscali), e introduciamo l’eliminazione dei pregiudizi di genere come elemento addizionale per definire la progressività (tra cui la non priorizzazione di alcune forme di convivenza su altre) e la revisione dei suoi meccanismi da un’ottica di sostenibilità della vita.[4] Puntiamo su una riforma fiscale che priorizzi le imposte dirette su quelle indirette, quelle sul capitale invece che sul lavoro. Una riforma fiscale che ridistribuisca dal capitale al lavoro; dal lavoro remunerato a quello non remunerato; dal soggetto privilegiato di "questa Cosa scandalosa", l'Uabbe, all’insieme della società.
Questo ci deve permettere di disporre di risorse monetarie collettive... perché? Per fare una ferrea difesa critica del settore pubblico. Lo Stato di benessere non è il nostro orizzonte di lotta, perché anche nelle sue (presumibilmente) migliori versioni, si basa sulla disuguaglianza internazionale, lo spoglio dell’ambiente e la divisione sessuale del lavoro. Però difendiamo sì il pubblico come assunzione di responsabilità collettiva nella garanzia di certe dimensione del buon vivere collettivo. Difendiamo ciò che c’è, la reversione delle privatizzazioni (per esempio tramite la re-municipalizzazione) e l’ampliamento del pubblico a nuove dimensioni (come un vero sistema di promozione dell’autonomia e attenzione alla dipendenza, o un parco pubblico di alloggi ad affitto sociale). Difendiamo l’idea che ci sono settori strategici che devono essere tolti allo scopo di lucro.
Lo difendiamo in almeno tre sensi: Bisogna introdurre meccanismi che garantiscono che il pubblico non stia in opposizione ma bensì in connessione diretta con il comune, e che rompano con una visione burocratica e gerarchica di ciò che è di tutte/i. Criticamente, anche perché seppur il pubblico abbia una grande capacità di assumere il criterio dell’universalità, spesso lo fa a costo di imporre modi di vita standardizzati. Dobbiamo ricostruire il pubblico garantendo allo stesso tempo l’uguaglianza e la differenza. Finalmente criticamente, nel senso di immaginare istituzioni del pubblico-comune che pongano in marcia meccanismi di correzione dei privilegi, che vadano oltre il volontarismo di ognuna/o e che spostino il focus dalla discriminazione al privilegio.
Abbiamo sperimentato modi per connettere le parti di entrate e di spese: bilanci sensibili al genere, bilanci con un focus di benessere e bilanci partecipativi. Questi strumenti non sono semplici, né sono sempre ugualmente utili, però sono parte dello strumentario che abbiamo a disposizione.
L’investimento sul pubblico dipende dalla fiducia che in ogni contesto si ha nelle istituzioni. Mentre in alcuni casi si punta sull’assalto alla politica, quando lo Stato è un’entità non solo eccessivamente lontana ma direttamente nemica, allora l’investimento sul pubblico diventa investimento sul comune, non istituzionale.

3.3. Economia sociale e solidale

L'economia sociale e solidale (Ess) è un elemento fondamentale ed esistono meccanismi per promuoverla, a partire dalla spesa e contrattazione pubblica fino all'impegno cittadino quotidiano. Nel suo dispiegamento dobbiamo farci alcune domande: in che misura le realtà possono essere sociali e solidali se non sono femministe? Che significa funzionare secondo parametri femministi? Come utilizzare l'Ess nel contesto di un’economia nella quale siamo ancora schiavi del salario senza cadere nella spirale della promozione del consumismo? Usiamo la Ess come una maniera alternativa di produrre e anche di consumare in maniera collettiva? Che difficoltà incontra la Ess nel garantire la propria sostenibilità finanziaria e anche la propria sostenibilità riproduttiva? Possono queste realtà rispondere pienamente alle necessità e alle responsabilità di cura dei propri membri nel contesto di una società in cui questa responsabilità non si condivide?
Puntare sulla Ess può e deve andare per mano con la messa in circolazione di monete locali/sociali, controllate democraticamente e che riassegnino al denaro il suo ruolo di strumento di scambio e non di accumulazione. Quindi: come vincolare valore d'uso e valore di scambio? Come esprimere monetariamente il valore delle cose? Cos'è il valore? Abbiamo bisogno di più analisi critica su come vincolare il valore all'apporto ai processi di sostenibilità della vita.

3.4. Spazi autogestiti e de-mercificati

Dobbiamo scommettere sulla proliferazione di spazi autogestiti che permettano una soluzione collettiva e de-mercificata ai bisogni. Questi spazi sono un ambito chiave per testare altre forme di organizzazione del lavoro e per domandarci quale sia questo vivere bene insieme che vogliamo rendere realtà. Centri sociali, case occupate, banche del tempo, esperienze Diy ("do it yourself", fallo da solo) o ancora meglio Diwo ("do it with others", fallo con altri), gruppi di asili condivisi, negozi gratuiti, reti di mutuo soccorso... Sono ambiti imprescindibili, che vanno difesi e ampliati, anche attraverso la disobbedienza alla legalità vigente e/o l’espropriazione e la lotta alla proprietà privata.

3.5. Riforma agraria

La sfida per la riforma agraria riguarda la redistribuzione della proprietà della terra, in lotta contro il latifondismo e verso la proprietà sociale. Si propone a partire dalla doppia idea che la terra non sia una merce, ma un bene comune e la cui proprietà e uso debbano essere subordinate al principio per il quale la terra è di chi la lavora. Questa lotta deve riconoscere il ruolo delle contadine come (ri)produttrici, evitando che restino sussunte nella scatola nera della famiglia contadina e riconoscendo le loro competenze. La rivendicazione della riforma agraria è legata alla sfida per la sovranità alimentare e la agro-ecologia, così come alla sfida di mettere in marcia un processo di ri-ruralizzazione della società, che metta in discussione l'ambito urbano come destino ineluttabile del cosiddetto progresso, senza cadere pero in un’idealizzazione acritica del rurale.

4. Proposte e pratiche di sovversione a livello micro

Sono molteplici le pratiche economiche che sovvertono il sistema a partire dal quotidiano e dall’apparentemente piccolo. Lo sovvertiamo quando, nella disobbedienza quotidiana al genere, includiamo la disobbedienza alle dimensioni economiche della matrice eterosessuale. La mascolinità egemonica desidera l’autosufficienza attraverso l'inserimento di successo individuale nei mercati. La femminilità egemonica segue una logica di immolazione attraverso lo svolgimento di lavori residuali che devono essere fatti per amore. Entrambe sono soggettività danneggiate, che impediscono di risolvere l'interdipendenza in termini di orizzontalità. Solamente disobbedendo ad esse costruiremo una logica economica differente, che forse potremmo chiamare logica ecologica della cura.[5] Una logica che non sta né all’interno dell'etica produttivista della mascolinità bianca, né all’interno delle etiche (neo)servili dei soggetti subordinati all'Uabbe; una logica che oggi come oggi non esiste come struttura collettiva, ma che stiamo inventando nelle pratiche e nelle soggettività che mettiamo in campo quando disobbediamo.
L'erosione della divisione sessuale del lavoro nelle nostre pratiche quotidiane è un'altra strada fondamentale verso la sovversione. Sappiamo che questa organizzazione perversa del lavoro va molto oltre la semplice scissione tra lavoro remunerato e non remunerato; che ha a che fare con la divisione e la valorizzazione dei tempi di vita; e che non si risolve rendendo merce ciò che prima veniva svolto gratuitamente dalle donne. Abbiamo bisogno di ribellarci a questa struttura all’interno delle coppie eterosessuali e nelle nostre case, ma anche in tutt'altro tipo di relazioni e spazi di interazione (di lavoro, di quartiere, politici, ecc.).
Nel quotidiano costruiamo altre maniere di vivere bene. È lì che possiamo mettere in marcia forme di vita ecologicamente sostenibili, rompere con la spirale del consumo, disobbedire alla maternità e al lavoro di cura come destino femminile. È nel quotidiano che possiamo mettere in moto relazioni altre di convivenza, che combinino l'autonomia con la libera scelta e allo stesso tempo che assumano un impegno di fronte agli aspetti più neri della vita.
Sono molte le forme di sovversione che partono dal quotidiano. Il passo fondamentale è dare a queste un senso politico, andare oltre la mera pratica individuale e scollegata. Come abbiamo sempre detto partendo dal femminismo: il personale è politico. Non può esserci sovversione di "questa Cosa scandalosa" se non c'è una rivoluzione silenziosa nell'economia del quotidiano. E nemmeno ci può essere una sovversione se questa rivoluzione non la chiamiamo come tale: pratiche che distruggano "questa Cosa scandalosa" a partire dalla sua ricostruzione sempre incompleta.

5. Riflessioni finali

Le iniziative di sovversione includono non solo rivendicazioni, ma anche pratiche esistenti. Coloro che come me si trovano nell'Europa colonialista hanno bisogno di prestare una speciale attenzione a AbyaYala (e altri territori del Sud del mondo). In questi possiamo incontrare forme economiche non pienamente sussunte da "questa Cosa scandalosa". Ci sono molteplici vie di fuga che possono far esplodere il laccio Stato/impresa privata/famiglia nel mondo mal-sviluppato; il rapporto campagna/città non è ancora tanto squilibrato a favore del predominio dell’urbano. Le pratiche economiche delle donne popolari, contadine, indigene e afro-discendenti possono insegnarci molto per la consolidazione di forme di economia diverse e per la ri-contadinazione dei territori insostenibilmente urbanizzati.
Per concludere, se la lotta per decenni ha posto la priorità nella questione del lavoro, forse ora è il momento di cambiare: mettiamo in discussione l'economia a partire dalla questione di a chi risponda questo lavoro. Non si tratta solo di come dividiamo le cose da fare, ma di aprire la domanda su di cosa abbiamo bisogno o cosa vogliamo fare. Se non ci facciamo carico del desiderio partendo da visioni sovversive, il nostro desiderio continuerà a configurarsi lungo gli assi propri di "questa Cosa scandalosa". La domanda di come rendiamo possibile la vita racchiude una domanda ancora precedente: quali sono le vite che vogliamo sostenere. Forse questo è il nucleo centrale della sovversione.
Dal momento che stiamo sovvertendo, sappiamo che è molto dura la violenza che viene esercitata su noi. Si profilano nitidamente le linee di continuità tra la violenza capitalista, colonialista e eteropatriarcale. Questa violenza si sta esercitando già adesso, e brutalmente: hanno assassinato Berta Caceres e Lesbia Yaneth, i femminicidi sono una realtà ovunque, coloro che non muoiono attraversando il Mediterraneo lo fanno muovendosi verso l'Unione europea; e l'Europa non si vergogna davanti a coloro che muoiono di freddo chiedendo un rifugio che essa nega loro. Partendo dai corpi delle donne come primo luogo di espressione, si scatena una spirale biocida che va assorbendo tutto ciò che vive. Seppur qualche volta ha voluto truccarsi per rendersi meno visibile, il conflitto con la vita oggi è senza pudore, per questo la sovversione deve partire dalla vita in comune. Perché ci vogliamo vive.
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1. Lungo questo testo abbiamo optato per parlare di femminismo al singolare e non di femminismi al plurale. In quest’occasione lo facciamo come una scelta strategica per sottolineare ciò che ci unisce, senza che questo implichi negare i dibattiti e i posizionamenti differenti, compresi i conflitti.
2. Parafrasando Riechman J., Resistencia de materiales: ensayos sobre el mundo y la poesía y el mundo, 2006.
3. Come rivendicano compagne come le femministe xinkas (vedi per esempio Cabnal, "Acercamiento a la construccion de la propuesta de pensamiento epistémico de las mujeres indígenas feministas comunitarias de Abya Yala", Feminismos diversos: el feminismo comunitario, ACSUR, 2010)
4. Cfr., per esempio, l’esperienze della Diputacion Foral de Gipuzkoa in materia di tassazione delle società; spiegata da Gómez in "Desde la diputacion queremos construir alternativas que garanticen el buen vivir", Propuestas ecofeministas, construyendo vidas que importan