Riflessioni sulla pronuncia della Corte costituzionale sulla PMA

Sat, 03/05/2014 - 17:24
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A cura dello Sportello legale di Communia

Alcune riflessioni sulla recente pronuncia della Corte Costituzionale sulla legge sulla Procreazione medicalmente assistita

A seguito della pronuncia della Corte Costituzionale, ci è sembrato opportuno ripercorrere la strada che aveva portato all’approvazione di quella tanto discussa normativa e soprattutto ricordare quanta strada c’è ancora da fare per un suo completo superamento.
La storia della Legge 40/2004 sulla Procreazione medicalmente assistita non è la solita storia di una legge scritta male (come tante nel nostro Paese). In sé racchiude molti più significati, molti di carattere politico e altri giuridici.
La Legge 40 nacque in un contesto politico fortemente ideologizzato: le destre – soprattutto quelle clericali (ma il discorso si potrebbe estendere anche alla sinistra “devota”) – avviarono una campagna contro la legge sull’aborto, ma anche sul “fine vita” (il caso Englaro sarebbe scoppiato di lì a poco), con una furia disumana. La Legge 40 divenne quindi l’altare – e qui lo si può dire – sul quale celebrare la liturgia clericale contro i corpi delle donne, la loro autodeterminazione e in generale contro la libertà di ciascuno/a di decidere della propria vita.
Subito dopo l’approvazione della Legge si sviluppò un movimento di opinione convintamente contrario all’impostazione e ai principi sottesi all’intervento normativo. Così il 30 settembre 2004 si consegnarono alla Corte di Cassazione gli scatoloni con oltre un milione di firme per il quesito di abrogazione totale e oltre 700.000 sottoscrizioni per altri quattro di abrogazione parziale. Il 13 gennaio 2005, la Corte Costituzionale decise l’inammissibilità del quesito referendario di abrogazione totale, mentre dichiarò ammissibili i quattro di abrogazione parziale della legge.
Pertanto, il 12 e 13 giugno dello stesso anno i cittadini furono chiamati a pronunciarsi su questi temi:
1) garantire la fecondazione assistita non solo alle coppie sterili ma anche a quelle affette da patologie geneticamente trasmissibili;
2) eliminare il limite di poter ricorrere alla tecnica solo quando non vi sono altri metodi terapeutici sostitutivi;
3) garantire la scelta delle opzioni terapeutiche più idonee ad ogni individuo,
4) dare la possibilità di rivedere il proprio consenso all’atto medico in ogni momento,
5) ristabilire il numero di embrioni da impiantare.
Tuttavia, da quel momento iniziò una campagna martellante e indecente, con la quale la politica – anche con l’intervento esplicito del Presidente della Camera Casini – iniziò a boicottare lo strumento referendario, tagliando qualsiasi dibattito sul merito. Di quella fase le cronache ci ricordano di assemblee nelle Chiese per impedire ai fedeli di andare ai seggi, di istituzioni repubblicane che invitavano – come fece Craxi – ad andare al mare… pur di non far raggiungere il quorum.
Una doppia sconfitta della politica. Infatti, non solo tale atteggiamento svuotò di netto la funzione e il ruolo delle istituzioni democratiche ma ha offrì l’immagine di un mondo politico “asservito” al potere clericale. Fu comunque una pressione, che al di là di tutto, portò i suoi frutti: quel referendum – l’ultimo di una lunga serie, prima del successo di quello sull’acqua – non raggiunse il quorum e la legge non venne abrogata.
Ma occorre raccontare anche un altro aspetto di quel periodo, ossia di come negli ambienti liberali e della sinistra radicale non ci s’impegnò mai sufficientemente per allargare il senso politico di quella battaglia, non solo sul piano scientifico e libertario ma anche e soprattutto su quello sociale ed economico. In molti – ma forse non in abbastanza – si tentò di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’intrinseca disuguaglianza sociale che avrebbe generato una legge del genere, vale a dire su chi avrebbe potuto girare in Europa per usufruire delle legislazioni permissive – e delle cliniche private compiacenti – e chi, invece, per impossibilità economica, doveva restare in Italia a subire le nefandezze giuridiche e mediche della Legge 40. (Un punto di vista che invece fu decisivo per influenzare il voto quando negli anni 70, partivano i pochi charter dall’Italia verso l’Inghilterra o la Svizzera e, per molti altri, abortire significava invece stare negli scantinati con le “mammane” e il ferro da baia).
Unica voce fuori dal coro fu quella dei numerosi collettivi femministi e di gruppi di donne che si batterono fin dal principio contro l’approvazione della Legge 40.
Tuttavia, dopo il fallimento del referendum, sul diritto alla procreazione e alla salute piombò il silenzio e si aprì, silenziosa, la battaglia di molte coppie nei Tribunali. È da questo momento che, oltre alle solite e minoritarie voci dissenzienti, la “parola” passò ai giudici. In dieci anni la Legge 40 ha già visto per 28 volte l’intervento dei tribunali (con oltre 20 "bocciature") e la riscrittura di alcune sue parti con sentenza della Corte Costituzionale. Un’enormità.
E da qui un lungo elenco di pronunce, di passi avanti e indietro, che non si può non riportare.
Già nel maggio 2004, appena due mesi dopo l’entrata in vigore della Legge 40, il Tribunale di Catania negò il diritto ad eseguire la diagnosi preimpianto a una coppia portatrice di betatalassemia. Un mese dopo, il tribunale di Cagliari consentì a una coppia di effettuare un’interruzione di gravidanza, con riduzione embrionaria, ottenuta con tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA), affermando che non vi è differenza tra gravidanza da Pma e gravidanza naturale.
Nel 2005, ancora il tribunale di Cagliari sollevò la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 13 della legge nella parte in cui non consente di accertare, mediante la diagnosi preimpianto, se gli embrioni da trasferire nell’utero della donna che si sottopone a PMA siano affetti da malattie genetiche. Nel novembre 2006, però, la Corte costituzionale dichiarò manifestamente inammissibile la questione, senza entrare nel merito delle motivazioni.
Nel 2007, il Tribunale di Cagliari e quello di Firenze consentirono l’accesso alla diagnosi preimpianto a due coppie.
Nel 2008, il Tribunale amministrativo regionale del Lazio annullò per eccesso di potere un passaggio delle Linee guida emanate dal ministero della Salute sulla Legge 40, in quanto ritenuto non coerente con quanto previsto dalla legge stessa. In questo modo, il Tar confermò quanto già scritto nella norma che prevede possano essere effettuate indagini cliniche diagnostiche sull’embrione.
Risalgono allo stesso anno due ordinanze del Tribunale di Firenze sull’articolo 14, commi 1, 2 e 3 della Legge, relativamente al divieto di crioconservazione degli embrioni soprannumerari, alla necessità di creazione di un numero massimo di tre embrioni e all’obbligo di impianto unico e contemporaneo di tutti e tre i suddetti embrioni.
Il 1 aprile del 2009, una sentenza della Consulta dichiarò l’illegittimità costituzionale proprio dell’articolo 14 commi 2 e 3 della Legge 40, cancellando il limite dei tre embrioni e l’obbligo di impianto contemporaneo di tutti gli embrioni prodotti.
Dopo i pronunciamenti dei tribunali di Milano e Bologna, ancora nel 2009, si arriva al 2010 con due ordinanze del tribunale di Salerno che consentì alla coppia ricorrente di accedere alla diagnosi preimpianto e di vedere impiantati solo gli embrioni che non presentassero mutazioni genetiche. In particolare, l’ordinanza ha un rilievo particolare perché per la prima volta viene riconosciuto alla donna «il diritto al figlio...».
Nel 2010 seguirono altre sentenze dei Tribunali di Firenze e Catania.
Nel 2012 arrivò invece l’ordinanza 150 della Corte costituzionale che riunisce i procedimenti dei tribunali di Firenze, Catania e Milano che basano il dubbio di legittimità costituzionale formulato sul divieto di fecondazione eterologa sia sulla violazione della Costituzione sia su una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Nelle motivazioni della Corte si legge che la cancellazione del divieto di fecondazione eterologa nel nostro ordinamento non crea vuoto normativo.
Nell’agosto dello stesso anno, la Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per violazione dell’articolo 8 della Cedu (Convenzione europea dei diritti umani) ad un risarcimento alla coppia ricorrente, portatrice di fibrosi cistica, per il negato accesso alla diagnosi preimpianto. Nel novembre del 2012, il Tribunale di Cagliari stabilì che, in caso di impossibilità da parte di una struttura pubblica di fornire l’assistenza necessaria nell’ambito delle procedure di PMA, la coppia ricorrente possa ricorrere a una struttura privata convenzionata, oltre a poter accedere alla diagnosi preimpianto e alla crioconservazione degli embrioni soprannumerari.
Infine, nel 2013 arrivano finalmente alla Corte Costituzionale le questioni sollevate dai Tribunali di Firenze, Milano Catania e Cagliari sulla costituzionalità degli articoli 4 e 13 della legge 40, la quale, investita della questione, l’8 aprile 2014 ne ha dichiarato l’incostituzionalità nella parte in cui si prevede il divieto della fecondazione eterologa.
È però già con la sentenza n. 151 del 2009 che la Corte costituzionale incomincia a porre alcuni punti fermi tesi a “smantellare” la legge.
La Corte, infatti, ha affermato che “il limite legislativo in esame [ossia l’obbligo di creazione di un numero massimo di tre embrioni nonché dell’unico e contemporaneo impianto degli stessi, ndr] finisce, quindi, per un verso, per favorire – rendendo necessario il ricorso alla reiterazione di detti cicli di stimolazione ovarica, ove il primo impianto non dia luogo ad alcun esito – l’aumento dei rischi di insorgenza di patologie che a tale iperstimolazione sono collegate; per altro verso, determina, in quelle ipotesi in cui maggiori siano le possibilità di attecchimento, un pregiudizio di diverso tipo alla salute della donna e del feto, in presenza di gravidanze plurime, avuto riguardo al divieto di riduzione embrionaria selettiva di tali gravidanze di cui all’art. 14, comma 4, salvo il ricorso all’aborto. Ciò in quanto la previsione legislativa non riconosce al medico la possibilità di una valutazione, sulla base delle più aggiornate e accreditate conoscenze tecnico-scientifiche, del singolo caso sottoposto al trattamento, con conseguente individuazione, di volta in volta, del limite numerico di embrioni da impiantare, ritenuto idoneo ad assicurare un serio tentativo di procreazione assistita, riducendo al minimo ipotizzabile il rischio per la salute della donna e del feto. Al riguardo, va segnalato che la giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente posto l’accento sui limiti che alla discrezionalità legislativa pongono le acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l’arte medica: sicché, in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere la autonomia e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali (sentenze n. 338 del 2003 e n. 282 del 2002)” (Corte costituzionale sent. n. 151/2009).
Conseguente, quindi, il principio fondamentale espresso dai giudici costituzionali secondo cui “La previsione della creazione di un numero di embrioni non superiore a tre, in assenza di ogni considerazione delle condizioni soggettive della donna che di volta in volta si sottopone alla procedura di procreazione medicalmente assistita, si pone, in definitiva, in contrasto con l’art. 3 Cost., riguardato sotto il duplice profilo del principio di ragionevolezza e di quello di uguaglianza, in quanto il legislatore riserva il medesimo trattamento a situazioni dissimili; nonché con l’art. 32 Cost., per il pregiudizio alla salute della donna – ed eventualmente, come si è visto, del feto – ad esso connesso”(sent. cit).
In altri termini, la Corte riconosce, e sanziona, la violazione del principio supremo di uguaglianza e, soprattutto, di tutela della salute della donna.
Sulla base di questi principi e sulla spinta dei Giudici, lentamente, la legge è stata scardinata, fino ad arrivare all’ultima decisione del 2014.
Eppure, la fine di questa storia, oggi, non è ancora scritta. Anche se la legge non può più dirsi operativa, la questione che si apre è ancora una volta politica.
Da un lato, occorre riflettere sul potere della magistratura, ossia sulla sua possibilità di decidere su un ambito di attività ormai esagerato (droghe leggere, legge elettorale, riforme costituzionali, diritti di partecipazione, diritti civili, ecc.) tenendo alta l’attenzione per non finire in un Paese governato dai giudici. Anche questa è e deve restare una valutazione prettamente politica, capace cioè di ‘disincantare’ dai momenti di euforia fugaci di qualche sentenza favorevole della Magistratura e farci dimenticare le molte pronunce compiacenti su diversi “scandali” del nostro Paese, come quelle in primis che riguardano i tanti compagni e compagne che hanno vissuto sulla propria pelle gli effetti della repressione, o ancora quelle sul lavoro, sull’ambiente, sulla salute, sull’istruzione, sulla finanza pubblica, ecc.
Dall’altro ancora una volta si pone il problema di come si dovrebbe intervenire su tali temi, che toccano in prima battuta la salute delle donne ma non solo, e soprattutto su come si dovrebbero coinvolgere gli strati più ampi dell’opinione pubblica, manifestando finalmente il vero significato del termine politica ossia partecipazione.
Sappiamo bene che non basta una sentenza - per quanto, una volta tanto, positiva – a garantire le donne, ma servono percorsi di autorganizzazione e di lotta capaci di rivendicare diritti e di mostrare i reali bisogni di chi li attraversa.