Riflessione degenere 4 – Ripensare il capitale per ripensare il genere

Fri, 18/04/2014 - 16:45
di
Cinzia Arruzza

Nelle riflessioni degeneri precedenti ho cercato di chiarire quali sono i limiti di un pensiero frammentato, che fotografa le varie forme di oppressione e dominio senza coglierne l’unità intrinseca, riconducendo, invece, ognuna di esse a un sistema autonomo. Inoltre, ho criticato una lettura del rapporto tra capitalismo e oppressione di genere basata su quella che ho definito l’idea del ‘capitalismo indifferente’. È arrivato ora il momento di affrontare la cosiddetta ‘unitary theory’, e la nozione di riproduzione sociale.

Riconcettualizzare il capitale
Come ho già avuto modo di spiegare, posizioni dualiste generalmente partono dal presupposto che la critica marxiana dell’economia politica analizza le pure leggi economiche del capitale attravero categorie meramente economiche, che dunque non sarebbero adeguate a comprendere fenomeni complessi come la molteplicità delle relazioni di potere e delle pratiche discorsive che ci costituiscono come soggetti. Questo è il motivo per cui approcci epistemologici alternativi, in grado di cogliere cause di natura differente da quelle economiche, vengono considerati più adeguati a comprendere la specificità e irriducibilità di queste relazioni sociali. Questo presupposto è comune a un ampio spettro di teorie femministe. Alcune di queste hanno suggerito che ciò di cui abbiamo bisogno è un ‘matrimonio’ o una combinazione eclettica di tipi diversi di critica, gli uni rivolti alle pure leggi economiche dell’accumulazione capitalista, gli altri alle altre forme di relazione sociale. Altre, invece, si sono limitate ad abbracciare la cosiddetta svolta linguistica nella teoria femminista, divorziando la critica dell’oppressione di genere da quella del capitalismo. In entrambi i casi, il presupposto in comune è che esistano delle ‘leggi economiche pure' indipendentemente da relazioni specifiche di dominio e alienazione. È proprio questo il presupposto da mettere in discussione. Per ragioni di spazio mi limiterò a sottolineare due aspetti della critica marxiana dell’economia politica.

1. Una relazione di sfruttamento implica sempre una relazione di dominio e di alienazione. Questi tre aspetti non sono mai realmente separati nella critica marxiana dell’economia politica. La lavoratrice è in primo luogo un corpo vivente e pensante soggetto a forme specifiche di disciplina che rimodellano sia lei che il suo corpo. Come scrive Marx, il processo produttivo produce il lavoratore nella stessa misura in cui riproduce la relazione capitalista. Dal momento che ogni processo di produzione è sempre un processo concreto, cioè caratterizzato da aspetti che sono storicamente e geograficamente determinati, è possibile concepire ogni processo produttivo come uno specifico processo disciplinare, che costituisce parzialmente il tipo di soggetto che la lavoratrice viene a essere. Lo stesso può essere detto per il consumo delle merci: come messo in rilievo da Kevin Floyd nella sua analisi della formazione delle identità sessuali, il consumo di merci ha un carattere disciplinare e partecipa alla reificazione delle identità sessuali. Dunque, è parte del processo di formazione delle soggettività.

2. Per Marx, produzione e riproduzione costituiscono un’unità indivisibile. In altri termini, mentre sono distinte e separate e hanno delle caratteristiche specifiche, produzione e riproduzione sono combinate insieme in maniera necessaria come momenti concreti di un insieme articolato. Per riproduzione qui si deve intendere il processo di riproduzione di un’intera società, o per usare una terminologia althusseriana, la riproduzione delle condizioni della produzione: istruzione, industria culturale, chiesa, polizia, esercito, sistema sanitario, scienza, discorsi di genere e abitudini di consumo... tutti questi aspetti giocano un ruolo cruciale nella riproduzione di relazioni di produzione specifiche. Senza riprodurre le condizioni della produzione, Althusser osserva in Ideologia e apparati ideologici dello Stato, una formazione sociale non resisterebbe nemmeno un anno. Il rapporto tra produzione e riproduzione, tuttavia, non va inteso in termini deterministici o meccanici. Infatti, per quanto Marx consideri, a mio avviso, la società capitalista come una totalità, non la considera come una totalità espressiva: in altri termini non c’è diretto e automatico rispecchiamento tra i diversi momenti di questa totalità (arte, cultura, struttura economica, e così via) o tra un momento singolo e la totalità nel suo complesso. Ora, analizzare il capitalismo facendo astrazione da questa unità di produzione e riproduzione significa cadere in un materialismo e un economicismo volgari. Ma Marx non commette questo errore. Basta guardare non solo ai suoi scritti politici, ma al Capitale stesso, ad esempio le sezioni relative alla lotta sulla giornata di lavoro o all’accumulazione primitiva, dove appare chiaro che coercizione, intervento attivo dello Stato e lotta di classe sono componenti costitutive di una relazione di sfruttamento che non è determinata da leggi puramente economiche e meccaniche. Per dirla con Balibar, il materialismo di Marx non è una ‘mera inversione della gerarchia, un “operaismo teorico” [...] (come gli rimprovereranno Hannah Arendt e altri), cioè un primato accordato alla poiesis sulla praxis in ragione del suo rapporto diretto con la materia, ma l’identificazione delle due, la tesi rivoluzionaria secondo la quale la praxis passa costantemente nella poiesis, e reciprocamente’ (La filosofia di Marx, manifestolibri 2005, p. 50).

Queste breve osservazioni servono a indicare il fatto che l’idea che Marx concepisca il capitalismo in termini di mere leggi economiche non è sostenibile. Questo non vuol dire che non ci siano state o non ci siano tendenze riduzioniste o materialiste ‘volgari’ nella tradizione marxista. Vuol dire però che esse si basano su un fondamentale fraintendimento della natura della critica marxiana dell’economia politica e su una feticizzazione delle leggi economiche, concepite come cose statiche o come strutture astratte, anziché come forme di attività e di relazioni umane.

Un’ipotesi alternativa e speculare a quella della separazione tra leggi puramente economiche del capitale e altri sistemi di dominio consiste nel concepire l’unità tra produzione e riproduzione in termini di diretta identità. Questa posizione caratterizza parte del pensiero femminista marxista, in particolare quello di origine operaista che ha insistito nel considerare il lavoro riproduttivo come lavoro direttamente produttivo di plusvalore e governato da simili leggi. Per ragioni di spazio mi limito qui a osservare criticamente che una posizione di questo genere equivale, a mio avviso, a una forma di riduzionismo, che oscura le differenze tra i diversi rapporti sociali e non ci aiuta a comprendere le caratteristiche specifiche dei diversi rapporti di dominio costantemente riprodotti, ma anche trasformati in ogni formazione sociale capitalista. Inoltre, non ci aiuta ad analizzare il modo specifico in cui alcuni rapporti di potere hanno luogo fuori dal mercato formale del lavoro, rimanendo allo stesso tempo indirettamente mediati dal mercato: ad esempio attraverso forme disciplinari di consumo delle merci, o attraverso i vincoli oggettivi che il lavoro salariato (o il suo corrispettivo: la disoccupazione) impone alla vita personale e alle relazioni interpersonali.
In conclusione, il mio suggerimento è di pensare alla critica marxiana del capitalismo come alla critica di un insieme articolato e contraddittorio di relazioni di sfruttamento, dominio e alienazione.

Riproduzione sociale e ‘unitary theory’
Alla luce di questo breve chiarimento metodologico passo ora ad affrontare brevemente cosa si intenda per riproduzione sociale all’interno della cosiddetta ‘unitary theory’. All’interno della tradizione marxista il termine ‘riproduzione sociale’viene generalmente impiegato per indicare, come ho già accennato prima, il processo di riproduzione di un’intera società. All’interno del femminismo marxista, tuttavia, ‘riproduzione sociale’ indica una sfera più ristretta: quella del mantenimento e riproduzione della vita, sia su base quotidiana che su base intergenerazionale. Riproduzione sociale in questo contesto indica il modo in cui viene organizzato all’interno di una società data il lavoro fisico, mentale ed emotivo necessario alla riproduzione della popolazione: dalla preparazione del cibo, all’educazione dei bambini, dalla cura degli infermi e degli anziani, alla questione dell’alloggio, passando per la sessualità... Il concetto di riproduzione sociale ha il vantaggio di allargare lo sguardo rispetto al precedente concetto di lavoro domestico su cui si era concentrata buona parte del femminismo marxista. La riproduzione sociale, infatti, include una serie di pratiche sociali e tipi di lavoro più ampi del semplice lavoro domestico. Inoltre, espande l’analisi al di fuori delle mura domestiche, dal momento che il lavoro di riproduzione sociale non è sempre espletato nelle medesime forme: quanta parte di esso venga offerta attraverso il mercato, lo stato sociale, o le relazioni familiari è questione contingente che dipende da specifiche dinamiche storiche di cui le lotte delle donne sono parte integrante. Attraverso la nozione di riproduzione sociale è possibile, ad esempio, tematizzare in modo più preciso il carattere mobile e poroso delle pareti domestiche, in altri termini il rapporto tra la vita all’interno delle mura domestiche, a un lato, e i fenomeni di mercificazione, la sessualizzazione della divisione del lavoro e le politiche concernenti lo stato sociale, dall’altro. Inoltre, questione fondamentale, parlare di riproduzione sociale consente di analizzare in maniera più efficace fenomeni quali il rapporto tra la mercificazione del lavoro di cura e la sua razzializzazione attraverso politiche migratorie repressive, miranti ad abbassare il costo del lavoro migrante e a forzarlo in direzione di condizioni semi-servili.
Infine, e questo è il dato centrale, il modo in cui la riproduzione sociale è organizzata in una data formazione sociale mantiene un rapporto intrinseco con il modo in cui sono organizzate la produzione e la riproduzione della società nel suo complesso, e dunque con i rapporti di classe. In altri termini, non si tratta di concepire questi rapporti come mere intersezioni accidentali e contingenti: parlare di riproduzione sociale consente, al contrario, di identificare la logica che organizza queste intersezioni, senza allo stesso tempo escludere il ruolo della lotta e, in generale, di fenomeni e pratiche contingenti.

Ora, una cosa da tenere a mente è che la sfera della riproduzione sociale contribuisce in maniera determinante alla formazione di soggettività, e dunque di rapporti di potere. Se si prende in considerazione il tipo di rapporto esistente in ogni società capitalista tra riproduzione sociale, riproduzione della società e rapporti di produzione, è possibile vedere come i diversi rapporti di dominio e di potere non sono livelli o strutture separati, che si intersecano in modo esterno e che mantengono una relazione meramente contingente con i rapporti di produzione. Al contrario, i diversi rapporti di dominio e potere appaiono come momenti concreti di un’unità contraddittoria e articolata, quella della società capitalista. Questo processo non va inteso in modo meccanico e automatico. La dimensione che non va mai dimenticata, infatti, è, come ho detto prima, quella della prassi umana: il capitalismo non è una macchina o un automa, è un rapporto sociale, e in quanto tale esposto a contingenza, accidenti, e conflitto. Tuttavia, contingenza e conflitto non escludono l’esistenza di una logica, quella dell’accumulazione capitalista, che pone dei vincoli oggettivi non solo alla nostra prassi, a ciò che facciamo, alla nostra esperienza vissuta, ma anche ai significati che siamo in grado di produrre e articolare, cioè al modo in cui interpretiamo noi stessi, le nostre relazioni con gli altri, la nostra posizione nel mondo, e il nostro rapporto rispetto alle nostre condizioni di esistenza.

Ora, la cossiddetta ‘unitary theory’ tenta di fare proprio questo: leggere i rapporti di potere basati sul genere o sull’orientamento sessuale come momenti concreti di quell’insieme articolato, complesso e contraddittorio che è la società capitalista: momenti certamente dotati di caratteristiche proprie e specifiche, alcune delle quali vanno analizzate con strumenti adeguati e specifici (dalla psicoanalisi alla critica letteraria...), ma che tuttavia mantengono un rapporto interno con questo insieme, e cioè con il processo di riproduzione della società secondo la logica dell’accumulazione capitalista.

Il presupposto dell’‘unitary theory’ e di gran parte del femminismo marxista è quindi che l’oppressione di genere, come quella razziale, non corrispondano più a due sistemi autonomi e dotati di cause proprie, ma siano invece diventati, attraverso un lungo processo storico di dissoluzione delle precedenti forme di vita sociale, parte integrante della società capitalista. Da questo punto di vista, sarebbe un errore considerarle come dei ‘residui’ provenienti da precedenti formazioni sociali, che continuano a persistere all’interno delle società capitaliste per ragioni che vanno dal loro radicamento nella psiche umana all’antagonismo tra ‘classi’ sessuali, ecc. Non si tratta qui né di sottovalutare la dimensione psicologica dell’oppressione di genere e sessuale, né le contraddizioni tra oppressori e oppresse. Si tratta però di analizzare quali siano le condizioni sociali, il contesto dei rapporti di classe, che incentivano, riproducono e influenzano sia la percezione di noi e del nostro rapporto con gli altri sia i nostri comportamenti e le nostre pratiche. Questo contesto è quello della logica dell’accumulazione capitalista, che pone limiti e vincoli fondamentali alla nostra esperienza vissuta e al modo in cui la interpretiamo. Che larga parte del femminismo degli ultimi decenni abbia potuto fare astrazione dall’analisi di questi processi e del ruolo cruciale svolto dal capitalismo nella riproduzione dell’oppressione di genere e delle sue varie forme la dice lunga sulla capacità del capitale di cooptare le nostre idee e di influenzare il modo in cui pensiamo.