Figlie della stessa rabbia – e con gli occhi ben aperti.

Sat, 17/09/2016 - 11:34
di
Saura Effe

In quell’ottimo romanzo che è “Cecità”, Josè Saramago scrive: “A mio parere, non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono”.
Nel romanzo di Saramago, tutta la popolazione viene colpita da quello che sembra essere un terribile virus in grado di rendere tutte e tutti improvvisamente ciechi. Nessun@ sa come intervenire per arginare il contagio. La militarizzazione, ovviamente crescente, presto viene meno dal momento che anche i soldati si ritrovano privi di vista. Le persone vedono bianco, solo ed unicamente una informe marea lattea di fronte a sé e sono perciò costrett* a collaborare, loro malgrado, a unire le forze nei momenti di oppressione, violenza, prepotenza.

A Melito di Porto Salvo, Calabria, una ragazzina viene stuprata per tre anni di fila - da quando ne ha tredici a quando ne compie sedici - da nove uomini del paese. La notizia esce sui giornali questo undici settembre.
A Casalnuovo di Napoli, una giovane donna si suicida. Alcuni video (nel più visualizzato la giovane praticava del sesso orale ad un uomo diverso dal fidanzato) vengono caricati online a sua insaputa.
Tiziana, dopo un’ inutile battaglia legale, si toglie quindi la vita a 33 anni il tredici settembre.
A Rimini, invece, un’altra ragazza, di diciassette anni, viene violentata da un ragazzo nel bagno della discoteca mentre le amiche riprendono il tutto con il cellulare, diffondendolo infine tramite Whatsapp.
E’ il quattordici settembre.
E oggi, pochi giorni dopo, credo sia ora di ammettere, dopo tutta questa violenza, che noi, tutte e tutti abbiamo un problema con le donne; è arrivata l’ora di ammettere la nostra cecità.

A Melito di Porto Salvo, gli stupratori italiani – lo specifico, visto che si tende sempre a specificare la nazionalità dei violentatori – andavano a prendere la ragazzina a scuola per condurla in una casetta in montagna, dove c’era il letto, oppure, nell’urgenza dell’amplesso, la conducevano forzatamente al desolato cimitero vecchio.
"Una situazione squallida, ma all’omertà non ci credo" ha detto il vecchio preside della scuola media frequentata dalla ragazzina.
"La scuola non c’entra, ognuno deve pensare alla sua famiglia" ha affermato invece il nuovo dirigente scolastico. "Sono vicina alle famiglie dei figli maschi. Per come si vestono, certe ragazze se la vanno a cercare" ha sintetizzato invece una intervistata.

Per tre anni, l’hanno stuprata a piacimento. A turno, tutti assieme, prelevandola ovunque fosse, portandola in luoghi isolati. Tre anni. Come non sapere cosa stesse accadendo a questa ragazza? Un’epidemia di cecità ha colpito le abitanti e gli abitanti di questo villaggio calabrese?
L’omertà ha giocato senza dubbio un ruolo sostanziale, ma domandiamoci, che cos’è poi l’omertà in una situazione di palese violenza di genere se non la normalità, se non un qualcosa di socialmente accettato e anzi, suggerito?
La violenza di genere, che sia quella che si consuma entro le mura domestiche o al di fuori di esse, è qualcosa di invisibilizzato, di interiorizzato. Siamo talmente abituat* a vederla, a riceverla, a subirla, a incontrarla che oramai la percepiamo come prassi, norma, natura.
Siamo cieche e siamo ciechi dinnanzi agli episodi che la manifestano.

Se una ragazza – ad esempio - vestisse un paio di pantaloncini e una canotta e per questo venisse insultata, additata, giudicata – perché quel vestiario è scarso come la sua morale – non interverremo se non per dar ragione a chi l’ha aggredita. "E’ una cagna", diremmo, " ‘na troietta" , cert* del fatto che quello che si indossa sia specchio della propria vita sessuale, delle proprie abitudini. (Se poi la ragazza fosse fisicamente diversa dall’ideale di irraggiungibile magrezza suggerito dai media, ecco che oltre che a darle della puttanella, ci spingeremmo ben oltre, suggerendole di coprirsi che "tanto, fa schifo al cazzo".)
Che poi, anche se alla suddetta ragazza, effettivamente piacesse fare sesso, farne tanto, con persone diverse, una alla volta o tutte assieme nella felicità orgiastica della consensualità, che male ci sarebbe?
Sarebbero fatti nostri? Come questo fatto potrebbe mai influenzare la nostra pruriginosa esistenza?

Se la donna in questione fosse invece – tanto per fare un esempio - una modella in sfilata sul tappeto rosso del festival del cinema di Venezia ecco che ci slanceremmo in commenti ancora più subdoli, filosofeggiando sulla dignità, su cosa è virtuoso, appropriato e adeguato, ci perderemmo in discorsi che inneggiano ad una presunta morale, che impongono definizioni unilaterali di eleganza, pudore, vergogna.
Ma chi decide cosa sono il pudore, la vergogna e la dignità di un’altra persona?
Possiamo davvero tirare una linea immaginaria ed universale che delimiti questi concetti?
Ma ancora, se la donna di cui sopra godesse nel mostrare il proprio corpo, se le piacesse sfilare in modo provocatorio con una abito che le lasciasse scoperto l’inguine, certa di star sfidando i dettami della propria cultura – quella occidentale, eh - a noi, esattamente cos’è che reca tanto disagio nel vederla?
Perché dobbiamo sempre ergerci come difensori dei corpi d’altr* mettendo paletti, delimitando libertà altrui, dettando legge su cosa è giusto e cosa non lo è?

Se un ragazzo – sempre ad esempio - iniziasse ad avere, con la ragazza con la quale si frequenta, atteggiamenti possessivi arrivando a controllarle il cellulare, l’account sui social, troveremmo la cosa , tendenzialmente, romantica e tenera. Anzi, ci insospettiremmo del contrario, dell’assenza di questo comportamento: "Ah, se non è geloso è perché non ti ama, perché ha un’altra" diremmo all’amica di turno, pensando di ben consigliarla.
Se un ragazzo per strada iniziasse a seguire una giovane, importunandola con domande dapprima neutrali come "C’hai una sigaretta? " spingendosi poi verso più intime domande come "Hai mai scopato in mezzo ad una strada? ", cosa esattamente ci spinge a declinare ogni colpa dell’avvenuto - o scampato- stupro sulla ragazza in questione? Come possiamo permetterci di uscircene con frasi, tristemente note, come
"Si vede che l’hai provocato, gli hai dato troppa confidenza, eri vestita troppo poco, dovevi fare così, così e cosà…". Provocato cosa, provocato chi?

Non riusciamo a distinguere le violenze che abbiamo sotto agli occhi tutti i giorni e che inondano i social network, i giornali, la nostra vita privata e pubblica. Siamo assuefatte e assuefatti, completamente, in modo trasversale, senza distinzione tra ceto sociale, livello di istruzione, etnia, orientamento sessuale, genere al sessismo, alle sue logiche, alle sue dinamiche.
Ma se capitare per caso in una situazione violenta è senza dubbio pericoloso, non rendersi conto della pericolosità di certi atteggiamenti è ancora peggio. Conoscere le trappole che il sessismo, la cultura dello stupro e le logiche patriarcali dispongono attorno a noi è il primo passo per identificarle, evitarle ed infine distruggerle.

Ma se siamo gender violence blind, cieche e ciechi di fronte alle violenze di genere, se le abbiamo assunte e prese per corrette, ecco che il problema si presenta come più complesso e di difficile sradicamento. Individuare la violenza, è vero, può essere doloroso. Non la si vede dall’oggi al domani ma intraprendendo un duro percorso per cui ci si sensibilizza ad essa, e questa, come un fantasma, poco alla volta si svela.
Non è facile: si tratta di un percorso in cui tutte e tutti ci mettiamo in gioco, ci mettiamo in discussione.
"Ma io compio violenza di genere e se sì come la metto in atto – e soprattutto – come faccio a smettere?".

Per vedere la violenza di genere verso le donne e verso tutte le soggettività diverse da quella del macho man stereotipato, serve coraggio, serve una buona dose di fegato per affrontare spettri che spesso stanno proprio sotto al nostro letto e non sotto quello d’altr*.
È difficile e per questo la maggior parte delle volte falliamo, non riuscendo nemmeno a notarle.
Forse perché le nostre attenzioni sono concentrate altrove, tutte catalizzate morbosamente sul sesso: quello che le donne fanno, quello che non fanno, come lo fanno e con chi.

Una giovane di trentatré anni si è tolta la vita, si è suicidata perché da un anno a questa parte – e dopo una durissima battaglia legale che l’aveva lasciata con 20.000 euro di spese legali da pagare – non riceveva altro che ingiurie, minacce, insulti, violenze di ogni tipo da chiunque avesse visto uno dei suoi video, caricati online senza il suo permesso.
Ecco che la vista collettiva allora ritorna quando c’è da sbirciare nel privato di qualcuna, quando c’è da guardare dal buco della serratura, quando c’è da controllare la vita altrui per ritrovarne i ruoli archetipici – il cornuto, la troia e il latin lover. Sembra una soap opera, di quelle che si vedono in tv, una storia intrigante morbosa proprio perché reale. Campionesse e campioni nel cancellare la cronologia, nello sputare sentenze, veleno e giudizi senza rendersi conto che no, non è una messa in scena, ma dall’altra parte di quello schermo c’è un altro essere umano, vero, vivo, in carne ed ossa.

"Stai facendo un video? Bravo" è la frase che si sente pronunciare nel video in questione. Questa frase è diventata uno slogan, è stata diffusa, stampata su magliette, tazze, portachiavi – perché il capitalismo guai a farsi scappare una occasione d’arricchimento -; il viso di Tiziana è diventato icona di pagine facebook, una meme, una immagine virale, ovunque, incollato a quella violazione, a quella sovradeterminazione a quella inaudita violenza che ha trasformato un momento di divertimento in un incubo avente per via d’uscita solo la morte.

La morte.

La voglia di fare sesso, la voglia di farlo orale, anale, penetrativo, di farlo diverso ancora e ancora, la voglia di anche farsi filmare, farsi fotografare – perché è divertente rivedersi, eccitarsi ancora di fronte alle scene già vissute, perché è curioso vedere come si è e cosa si fa da un’altra angolazione – è legittima, sempre.
Ciò che non è legittimo, è prendere quella consensualità e sfruttarla aldilà dei confini da essa stabiliti.
Ciò che non è legittimo è prendere quella consensualità momentanea e allargarla, ad altri occhi, ad altri sguardi.

La sessualità, specie se è di donna – e la tradizione nostrana docet in questo – non può essere che rivolta al proprio uomo, all’interno di vincoli relazionali ben precisi. Non è libera di esprimersi, di esporsi, e se lo fa è automaticamente da condannare. Che sia manifesta nel privato della propria casa, nel pubblico della propria cerchia di conoscenze, che sia messa a nudo, con le proprie voglie, gusti e desideri, comunque non è possibile: è da condannare. Siamo tutte troie, cagne, puttane, se vogliamo fare sesso. Ma se non vogliamo farlo, siamo ugualmente condannabili: anche il nostro rifiuto, infondo, non è ammissibile.

Le donne sono sempre state proprietà di qualcuno, da sempre, in ogni epoca, seppur in modi differenti - e questo retaggio, ancora oggi è vivo più che mai. Proprietà dei padri, dei fratelli, dei fidanzati, dei mariti, di qualsiasi uomo. Le donne sono sempre a loro appartenute, socialmente, economicamente, politicamente, affettivamente e sessualmente e, nello specifico, oggi quella sessualità è ancora di proprietà d’altri, ad altri vincolata e da altri controllata.
Tiziana aveva una sessualità libera, fuori dagli schemi, entusiasta e per questo, non era adatta a questo mondo ancora troppo retrogrado e sessista per accoglierla nella sua spontaneità e la legittimità delle sue voglie.

Sempre in cecità, Saramago scrive: "È di questa pasta che siamo fatti, metà di indifferenza e metà di cattiveria".
Sarebbe bello essere d’accordo con Saramago e farne solamente una questione di cattiveria ma no, è più complicato. Non sono persone cattive quelle che hanno stuprato per anni la ragazzina di Melito, non sono persone cattive quelle che hanno commentato, insultato, giustiziato Tiziana sul web e nella vita reale, non sono cattive persone quelle che hanno stuprato e ripreso una giovanissima inerme nel bagno di una discoteca di Rimini. Sono persone sessiste, misogine, machiste, imbevute degli ideali patriarcali di una società patriarcale che non ha mai avuto il tempo, la voglia e l’interesse di insegnare cosa sia la violenza di genere.
Di chi sia intrinsecamente cattiva o cattivo, non ce ne importa nulla. Quello che importa è che gli atteggiamenti sessisti assieme alla cultura dello stupro, dello slut e fat shaming, la cultura omobitransfobica, è reversibile e – seppur con enormi sforzi – può essere cambiata.

Ma gli occhi, dannazione, bisogna pur aprirli.
Su Repubblica, circa la ragazza di Rimini, scrivono: "Nel video non si vede la vittima in volto ma le immagini mostrano come fosse completamente inerme, passiva e abbandonata, in balia del suo violentatore. […]La denuncia ai carabinieri - effettuata a quaranta giorni di distanza dai fatti, rendendo di fatto complicati gli accertamenti sanitari sulla violenza - fa scattare un fascicolo per violenza sessuale nel quale però comparirebbero poche parole della 17enne: i ricordi sono scarsi e probabilmente confusi. "

Siamo cieche e ciechi anche di fronte a questo fatto, diamo la colpa alla ragazza. Troppo ubriaca, troppo scollata, troppo svestita, troppo affabile. Vediamo una marea lattiginosa dove scorre sangue di donna.
"Ha cambiato totalmente vita, ha smesso di andare a scuola, le è capitato di incrociare quel ragazzo e ha paura".
E noi, siamo qui, lobotomizzat* di fronte ad un computer, senza essere minimamente in grado di accorgerci di quello che sta succedendo attorno a noi, tutte e tutti complici, assassin* e stuprator*.
Questa ragazza ha diciassette anni e si ritrova in una situazione che no, non poteva evitare, che non avrebbe potuto cambiare in alcun modo, perché non spetta a lei, alle sue sole forze di singola cambiare il mondo tutto dalla misoginia imperante.
Come in “Cecità”, bisogna collaborare tutte e tutti per venirne fuori.

Qualche giorno fa, di fronte alla frustrazione che queste situazioni generano in chi cerca di combatterle e prevenirle ogni giorno, mi è stato chiesto: "Ma come si fa a continuare una battaglia che non finisce mai?" E la mia risposta è stata, credo, piuttosto banale: "Perché non si è capaci di voltarsi dall’altra parte. Odio gli indifferenti, no? ".
Ed è così, continuiamo a lottare perché si aprano gli occhi di tutte e tutti, perché qualsiasi donna sappia che non è sola, che ha delle amiche, delle sorelle, delle compagne, figlie della stessa rabbia.
Anche se è stancante, massacrante e svilente, perché non siam capaci di chiudere più gli occhi di fronte a tutta questa violenza.