8 marzo con la marcia mondiale delle donne - Reportage dal Kurdistan

Mon, 16/03/2015 - 12:26
di
Nadia De Mond

Parto con un po’ di apprensione, comunque. Andare fino all’estremo sud oriente della Turchia, sulla frontiera con la Siria… Ma anche molto curiosa di conoscere da vicino il Kurdistan, le organizzazioni delle donne kurde – di cui ho già intravvista la forza durante la giornata delle donne che precedeva il FSM nel 2010 ad Istanbul – e l’esperienza del Rojava. Il quadro organizzativo mi è familiare: partecipo alle mobilitazioni internazionali della Marcia mondiale delle donne dal 2000 e so che mi troverò in buone mani. Anche questo fa parte dell’interesse di appartenere ad una rete femminista internazionale: il potersi affidare a delle donne sconosciute che vivono e lottano dall’altra parte del mondo, per condividere un pezzetto di vita, rafforzarsi reciprocamente e prendere nuovi impegni con rinnovato entusiasmo.
Il volo di andata prevede uno scalo obbligatorio di una notte a Istanbul. Ne approfitto per incontrare Fabio che vive ormai da due anni nel quartiere malfamato ma molto simpatico di Fener e Balat. Mi racconta dei mille mondi che convivono in questa città di 22 milioni di abitanti, con divisioni forti e contraddizioni incrociate, di classe, di cultura, di religione, di provenienza, di genere, e non ultima quella provocata dalla massa di rifugiati/e siriani/e, poveri/e o benestanti, arrivati con la guerra. I ricchi sono oggetto della speculazione edilizia di una megalopoli che non smette di seminare grattacieli. Dei poveri si vede traccia nel quartiere di Fabio, con i bambini di strada, senza documenti, che per questo motivo non hanno diritto alla scuola e non imparano nemmeno la lingua.
L’indomani all’aeroporto mi imbatto subito nella delegazione francese che prende lo stesso volo per Mardin, la cittadina dove si svolgerà la grande conferenza dell’8 marzo. Sorvoliamo le montagne innevate della Turchia centrale dove si intravvedono paesini minuscoli isolati collegati tra loro con un esile lineetta nel bianco e cerco di immaginarmi la vita delle donne in quell’ambiente, ricordando il bellissimo film di Yilmaz Guney, “La strada”.
Mardin, pronunciata con una “a” lunga e una “r” all’inglese, è una bellissima città mesopotamica che deve avere almeno 3.000 anni. Il municipio è in mano al BDP, il partito della pace e della democrazia – l’organizzazione larga intorno al PKK, il quale invece è sempre fuorilegge – che ha avuto un grosso successo alle ultime elezioni, sia a livello locale in Kurdistan che a livello nazionale dove ha fondato l’HDP, una coalizione con vari frammenti della sinistra e dei movimenti sociali pro kurdi. Il municipio ci riceve all’aeroporto e ci ospita nella sua guesthouse. Ormai siamo una trentina, provenienti da Euskadi, Portogallo, Stato spagnolo, Serbia, Brasile, Mozambico, oltre che Francia e Italia.
La sera scopro con mio grande piacere che a Mardin si produce un ottimo vino rosso bio, ovviamente non venduto nei locali di stretta osservanza musulmana ma in molti altri ristoranti sì. Qui l’ISIS sembra ancora lontano. Il clima è rilassato, le donne con i foulard colorati, o qualche giovane senza, sono ben presenti – contrariamente a quello che mi avevano detto a Istanbul, che a Mardin avrei visto solo uomini per strada. E mi rendo conto che il clima di paura che viene creato intorno al Kurdistan fa parte della guerra di bassa intensità portata avanti dal governo turco.
Il giorno seguente partiamo, in autobus, ormai una cinquantina, con le greche, libanesi, tedesche, turche, a Nusaybin, sulla frontiera con la Siria, dove un’immensa folla di donne kurde ci riceve festosamente nel centro culturale mesopotamico, addobbato per l’8 marzo. Le bandiere del KJA, il congresso delle donne libere (kurde) sono dappertutto. Musica dagli altoparlanti, vestiti colorati e divise militari si mescolano danzando, tenendosi per mano. Donne giovanissime e anziane ci sorridono, ci toccano, si mettono in posa per una fotografia e impariamo subito tre parole in kurdo: jin, jyan, azadì: donne, vita, libertà.
La conferenza tratterà i temi classici della Marcia: violenza, lavoro, ecologia ma anche la costruzione della confederazione democratica di Rojava e la “ginealogia” – un tentativo di coniugare il femminismo a partire dalla realtà delle donne della Mesopotamia.

In coda per il pranzo sento parlare italiano e ho la fortuna di incontrare una giovane coppia siciliana che vive da ormai due mesi sul posto tra la cittadina di Nusaybin, i campi profughi di Suruç e Urfa, e Kobane. Kobane è all’80% distrutta; tutta la popolazione civile è rifugiata nei campi o ha preso le armi per difendersi. Il paese e i villaggi nei dintorni sono liberati ma ancora disseminati di mine e bombe inesplose per cui il ritorno non sarà né semplice, né immediato, anche se la voglia di ricostruire è grande. Con gli attacchi dell’Isis sono fuggiti anche i grandi proprietari terrieri e la confederazione democratica di Rojava intende approfittare dell’assenza loro e dello Stato siriano per procedere ad una riforma agraria e costruire i consigli di autogoverno.
La mattina successiva partiamo in marcia verso la frontiera siriana, dove ci aspettano, dall’altra parte, a Qamislo, le donne kurde siriane. Oltre il filo spinato c’è una striscia di 500m di no man’s land, piena di mine, che ci separa. Ma ci vediamo in lontananza e le ondate di musica e di solidarietà si sentono da entrambe le parti della frontiera. 5.000 donne delle organizzazioni di base si sono radunate sullo spiazzo per ascoltare il comizio, festeggiare l’8 marzo e la vittoria di Rojava.

Grazie a Nicola e Francesca che se la cavano ormai un po’ con il kurdo riesco a scambiare un minimo di parole con le donne del Rojava che hanno attraversato la frontiera (non del tutto impermeabile) nei giorni precedenti. Si parla di figli e compagni, con l’umorismo delle donne che ne hanno viste di tutti i colori. Purtroppo la barriera linguistica non permette di approfondire il discorso su altri temi. Ma mi faccio promettere dai giovani siculi che presto attraverseranno di nuovo la frontiera per conoscere l’esperienza dell’autogoverno in Cizire (il terzo cantone del Rojava, dopo Kobane e Efrin) che descriveranno questa realtà – rimasta fuori dalla guerra e quindi più avanti nel processo di costruzione della confederazione democratica autogovernata – con i dovuti particolari.

Una grossa delegazione delle varie zone kurde ci accompagna nel pomeriggio di ritorno a Mardin dove per la prima volta una manifestazione di donne attraverserà la città nella giornata internazionale delle donne.
Domenica 8 marzo è il turno di Dyarbakir (Amet in kurdo), la capitale del Kurdistan, due milioni di abitanti, ad organizzare il comizio in piazza, dove prenderà la parola anche la rappresentante della MMD. Di nuovo migliaia di donne di tutte le età partecipano attivamente alla manifestazione. Qui nessun segno di stanchezza o di routine. L’8 marzo è sentito come giorno di lotta, un mondo da conquistare, la solidarietà internazionale da festeggiare. Dyarbakir, a parte le antiche mura del centro storico, è una foresta di grattacieli, di cemento e asfalto dove le donne stanno lottando, tra le altre cose, per salvaguardare un minimo di spazio verde e di orti popolari.
All’indomani la carovana della MMD continuerà il suo giro attraverso la Turchia, verso Istanbul, per poi raggiungere la Grecia e il resto dell’Europa. Ma questa è un’altra storia.