Il 25 novembre è la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Cortei, manifestazioni, scioperi, spettacoli teatrali, campagne pubblicitarie, discussioni nella scuole, appelli: un vasto panorama di iniziative pronto a ricordarci che la violenza contro le donne è un problema sociale grave.
Ricordo la prima volta che ho celebrato il 25 novembre, nel 2006 all'università, quattro donne appendevano uno striscione di carta in un'università vuota. In un silenzio assoluto delle studentesse ricordavano che secondo un'indagine Istat 7 milioni di donne in Italia avevano subito una violenza nel corso della loro vita. Da allora si potrebbe dire che sono stati fatti dei passi in avanti: la stampa non ha più difficoltà a riconoscere che la maggior parte delle violenze subite dalle donne sono domestiche, così come che la gravità della situazione è tale che in Italia si può parlare di femminicidio (nel 2013 muore, in media, una donna ogni due giorni e mezzo).
C'è stata anche la legge n.119 del 15 ottobre 2013, un provvedimento che torna a finanziare i centri antiviolenza e le case rifugio per le vittime dopo anni di penuria di fondi, oltre a stabilire pene più severe per gli imputati, specie se familiari, specie se migranti (strumentalizzando ancora una volta la violenza sulle donne per portare avanti un'ideologia razzista, ma questo è solo un esempio dei limiti del ddl).
La morte e le percosse fisiche sono, però, solo la parte più evidente della violenza di genere: lo stalking, la mortificazione, la violenza verbale, il perpetuarsi di ruoli prestabiliti dentro come fuori dalla famiglia, gli onnipresenti ostacoli all'emancipazione delle donne, nell'educazione come nel lavoro, la violenza economica e psicologica sono alcuni degli aspetti contro cui ogni giorno una donna è costretta a lottare.
La situazione di crisi presente non ha fatto che aggravare le segregazioni di genere esistenti. In Italia le donne occupate sono il 46,8% contro il 65,3% degli uomini, la disoccupazione femminile raggiunge il 13,2%, mentre quella maschile si arresta all'11,2% e, dato più preoccupante, il tasso di inattività femminile è al 46,1% contro quello maschile del 26,3.
Andando ad analizzare più nello specifico il lavoro nel Bel Paese, possiamo vedere come la situazione non migliori, anzi: i contratti atipici per le donne sono il 14,6% di quattro punti superiori a quelli maschili, situazione che si ribalta per i contratti standard (84,4% tra gli uomini contro i 60,7% tra le donne); minore per noi donne è la possibilità di passare da un contratto flessibile a uno standard (contro una media nazionale del 16%, scendiamo all'11,9%, con picchi del 9,7% al Sud).
A parità di condizioni la retribuzione oraria femminile è dell'11,5% inferiore a quella maschile e dal 2008 al 2012 l'occupazione femminile cresce più del doppio rispetto agli uomini nelle professioni non qualificate (24,9% contro il 10,4%)
Si nota però un'inversione di tendenza dentro casa dove le madri, le mogli, le sorelle e le figlie si fanno carico della maggior parte del lavoro di cura, 36 ore settimanali contro le 14 degli uomini.
La strategia Italia 2020 si propone di essere un aiuto alla conciliazione tra casa e lavoro, incentivando il lavoro part time per le donne in modo da permettere loro di poter essere delle madri lavoratrici e favorendo con detrazioni fiscali l'assunzione di donne migranti, così da scaricare su altre donne sottopagate la cura di anziani e bambini di cui lo Stato continua a non farsi carico.
Ed è qui che i risultati si iniziano a intravedere: il part time involontario per le donne raggiunge quota 54,1%, in aumento di 16,4 punti dal 2008 e sono circa il doppio degli uomini le occupate a tempo parziale con contratto a termine.
L'occupazione femminile perde meno di quella maschile in termini generale, crescendo tra i 50 e i 64 anni (34,8% nel 2008 contro i 40,5% nel 2012), frutto della riforma delle pensioni a firma Fornero, ma diminuendo tra le donne giovani, 15-34 anni, passando dal 42,4% al 37,1%.
In un'analisi di contesto generale, le esibizioni di questi giorni diventano lacrime di coccodrillo, un piangere consapevole delle proprie responsabilità davanti allo stato di cose vigente, un palliativo, un vano tentativo di lavarsi la coscienza, consapevoli che non si sta affrontando il problema.
I discorsi sulla violenza nei confronti delle donne che sentiamo in occasione del 25 novembre risultano così limitati e limitanti, se non offensivi.
Da una parte, infatti, l'unica violenza ad essere riconosciuta, accettata (e strumentalizzata) continua a essere quella fisica e, solo in casi estremi, psicologica, mentre il sistema economico altrettanto violento che la accompagna non viene toccato né nominato.
Dalla parte opposta, dal discorso sulla violenza sulle donne continuano ad essere escluse le lesbiche, bisessuali, intersessuali, transessuali, quasi come se non fossero donne, risultando così soggetti ancor più deboli, violabili, privi di diritti.
Le politiche di stabilità economica in tempo di crisi varate dall'attuale governo, come dai precedenti, con la sponda dell'UE, peggiorano la situazione e continueranno a incidere negativamente sulla lotta alla violenza di genere.
Oltre a non avere soluzioni per il lavoro o un ricalcolo delle pensioni, nell'ultima manovra economica assistiamo a un taglio netto delle risorse alle regioni (responsabili del diritto allo studio come alla sanità) di 5,5 miliardi di euro rispettivamente per il 2013, 2014 e 2015/16; sulla stessa scia ai comuni (detentori delle politiche abitative, della gestione dei nidi e degli asili) vengono decurtati 1,2 miliardi nel 2013, 1,5 nel 2014 e 1,6 negli anni 2015/2016.
Pubblica amministrazione, servizi, sanità e istruzione sono i rami in cui l'occupazione femminile è maggiore (26% delle donne contro il 19 dei colleghi di sesso maschile) e sono per la maggior parte gestiti dalle amministrazioni locali. Una doppia beffa per le donne che si troveranno tagli in quei settori dove sono maggiormente e impiegate e dei servizi di cui usufruiscono nella conciliazione lavoro-famiglia. Meno fondi per l'emancipazione e maggiore lavoro di cura.
L'affannosa ricerca nel garantire il pagamente del debito pubblico ci sta portando ad ampliare la discrepanza di genere e la Grecia dimostra quotidianamente come i diktat comunitari non abbiano fatto altro che peggiorare lo stato di cose, soprattutto per le donne.
Come se la già citata precarizzazione dei contratti, gli stipendi sempre inferiori, i tagli al welfare e l'aumento degli obiettori di coscienza nei consultori pubblici (già pesantemente pauperizzati) non fossero sufficienti, il prelievo quotidiano di denaro pubblico per finanziare opere di interesse privato non fa altro che incrementare la situazione di oppressione e sfruttamento a danno delle donne.
Grandi opere e grandi eventi sottraggono fondi a regioni, province e comuni, sconvolgono territori, vite e corpi, limitano le possibilità di liberazione individuale e contribuiscono alla reiterazione dello stato di cose esistente.
La violenza economica continua quindi ad affermarsi all'interno delle relazioni affettive sul riflesso di questo stesso contesto politico e culturale, basato su un sistema capitalistico e patriarcale.
Ed è una violenza portata avanti e legittimata da chi non ne parla, tra le lacrime delle celebrazioni e l'insufficienza delle politiche.