I tornelli all'università sinonimo di aziendalizzazione ed esclusione

Tue, 14/02/2017 - 09:37
di
Silvio Paone

I fatti sono noti. L’Università di Bologna ha installato dei tornelli per regolare l’accesso alla biblioteca di via Zamboni 36. Contro questa decisione si sono immediatamente schierati i collettivi studenteschi, che proprio in quella zona concentrano la loro attività, consegnando circa 600 firme al rettorato affinché i tornelli fossero rimossi. In assenza di risposte, gli studenti hanno rimosso di propria iniziativa i tornelli. La reazione dell’Università è stata dunque quella di chiudere la biblioteca, riaperta prontamente dagli studenti. Fino al vergognoso epilogo dell’irruzione violentissima della polizia nella biblioteca e del conseguente sgombero.

Imperversa il dibattito sull’accaduto tra gli studenti non solo di Bologna. E in questo dibattito si colloca in maniera evidente un’operazione politico/giudiziaria volta ad annientare ogni traccia di dissenso dalla città. Tra fantasiose accuse di associazione a delinquere per i ragazzi dei collettivi, raccolte firme pubblicizzate sui quotidiani, interviste a studenti che si scoprono essere membri di spicco del Partito Democratico locale e quant’altro.
Chi scrive non ha mai vissuto a Bologna, e per questo ignora buona parte delle questioni specifiche del caso. Che tuttavia è tutto interno a una dinamica generale che risulta più facilmente trattabile dinanzi ai fatti di questi giorni. Sorvolando sulla questione complessiva, un aspetto particolarmente interessante da indagare riguarda il fatto che il posizionamento dei tornelli all’ingresso di una biblioteca universitaria venga spesso presentato come un dato positivo. Un servizio offerto agli studenti che potranno entrare usando il loro badge, al fine di tener fuori dalla biblioteca chi non ha diritto ad entrarvi. Come si fa nel Nord Europa. O in moltissime biblioteche universitarie anche qui in Italia. Positivo soprattutto nello specifico della biblioteca in questione che pare sia frequentata spesso e soprattutto in orario serale da senza tetto, spacciatori e personaggi “poco raccomandabili” di ogni genere. Un ragionamento che sembrerebbe di puro buon senso, contro l’atteggiamento ideologico e incomprensibile dei collettivi che nel rimuovere i tornelli dimostrerebbero in effetti di essere indecorosi e dannosi per la fruibilità della biblioteca almeno quanto questi personaggi che i tornelli dovrebbero tener lontani.
Ma questo ragionamento non è frutto del buon senso. E’ anzi del tutto interno all’ideologia neoliberale declinata nello specifico su due ambiti strettamente legati tra loro soprattutto in città come Bologna, che vivono in una continua dialettica col proprio polo universitario. Da un lato, il processo di aziendalizzazione degli atenei. E dall’altro, la ristrutturazione dello spazio urbano operata spesso in nome della sicurezza e del decoro.

Intendere in effetti le università come delle aziende significa anzitutto questo: chiudere con l’idea per cui l’ateneo sia nelle sue varie declinazioni (didattica, ricerca, divulgazione, accesso ai saperi) aperto alla società nella sua interezza. Gli atenei devono individuare i cosìddetti “stakeholders”, portatori d’interessi, e rispetto a questi strutturarsi al fine di garantire una serie di servizi. In tal senso, l’idea per cui le biblioteche debbano essere accessibili unicamente agli studenti assume un senso. Lo studente paga le tasse all’ateneo al fine di ottenere l’accesso esclusivo a una serie di servizi. E al di fuori di questa contrattazione economica tra il cliente e l’azienda, l’Università non ha alcun dovere nei confronti di altri soggetti. E’ esattamente questa la declinazione neoliberale della cosiddetta “terza missione” dell’Università. Al di la delle dichiarazioni d’intenti, le Università non mettono a disposizione della società alcunché, se non all’interno di una logica aziendale. Gli atenei rispondono unicamente ai “portatori d’interesse” che possono ricambiare in termini economici. In tal senso l’idea per cui i privati possano entrare nei consigli d’amministrazione e orientare didattica e ricerca in base agli “interessi del mondo del lavoro” sta esattamente nella stessa logica. Gli atenei devono muoversi sul mercato globale della formazione alla continua ricerca di finanziamenti e di studenti-clienti, in concorrenza tra loro. Proprio come fossero aziende di diritto privato. Inutile dire che tra i vari “stakeholders” gli studenti si trovano fin troppo spesso all’ultimo posto tra le priorità degli atenei. Clienti, consumatori, utenti. La massa indistinta cui offrire una serie di prodotti formativi e servizi a un livello minimo di sussistenza utile a permettergli di prendere una laurea e intraprendere il lungo cammino della precarietà.
In effetti non si spiega in altro modo questa posizione rispetto alla giustezza dei tornelli se non assumendo il principio ideologico per cui l’Università debba comportarsi come un’azienda. Perché caratteristica principale di un’istituzione pubblica dovrebbe essere quella di garantire l’accesso a determinati servizi ritenuti essenziali, entro ovvi limiti, a chiunque. A prescindere da un versamento economico presso quella specifica istituzione. Che è in effetti una caratteristica che dinanzi all’attacco dell’austerity e dello smantellamento dello stato sociale si va mano a mano perdendo nel comparto pubblico.
Dall’altro lato questo episodio chiama in causa il rapporto tra atenei e tessuto urbano, soprattutto in quelle città che accolgono poli universitari consistenti. Varie città con l’affermarsi dell’Università come un’istituzione di massa, si sono trovate a doversi confrontare con le trasformazioni che tutto ciò ha comportato. Moltiplicazione delle strutture degli atenei, creazione di adeguati sistemi di viabilità, nascita di quartieri densamente popolati da studenti fuori sede con tutte le conseguenze che questo implica rispetto alla questione della “movida”. Bologna, Pisa, Padova ma anche Roma o Milano hanno vissuto e continuano a vivere queste dinamiche. Territori a prevalenza studentesca, dove si susseguono unicamente locali e negozi per la vendita al dettaglio di cibi e bevande a prezzi accessibili. Territori che dinanzi all’esplosione della crisi sociale, alla disoccupazione, alla disperazione serpeggiante, sono spesso catalizzatori di un disagio sociale diffuso e che si articola in varie forme. Spaccio, insicurezza, degrado. Sono problemi reali, e non ammetterlo significherebbe dare una lettura miope alla questione. Alcuni episodi verificatisi all’interno della Biblioteca al 36 di via Zamboni sono effettivamente problematici quando non evidentemente ripugnanti ma per nulla inediti per chi da giovane e studente frequenta assiduamente quartieri simili in altre città.
Ma a nulla servono i tornelli, se non a dare ancora più il senso dell’esclusione sociale e a rimuovere il problema appena un metro fuori le porte dell’azienda universitaria. Che dovrebbe invece assumere di esser parte del problema proprio nell’essersi chiusa in se stessa, indifferente a ciò che accadeva sotto le proprie finestre, troppo impegnata a ricercare nuovi portatori d’interesse. Che per troppo tempo è stata complice, quando non promotrice della creazione di nuovi ghetti urbani, di nuovi confini dell’esclusione dai diritti, di nuove sacche di disperazione. Un intero business fatto di speculazione, affitti alle stelle, gentrificazione, liberalizzazione selvaggia delle licenze per la vendita di alcolici, creato sulle spalle degli studenti nelle nostre città. E il degrado e l’insicurezza ne sono diretta conseguenza. L’alternativa sarebbe ritenere che ci sia una ragione di ordine antropologico per cui sistematicamente lì dove ci sono poli universitari nascano quartieri ad altissima concentrazione di giovani dove sistematicamente insorgono simili problemi. Ma no, ci spiace dirlo, della retorica paternalista dei giovani sballati e senza rispetto per ciò che li circonda che richiamerebbero il degrado come fossero calamite ne abbiamo piene le tasche. E non sappiamo proprio che farne. Stante il fatto che lì dove qualcuno vede il degrado, qualcun altro potrebbe vedere in alcuni casi una fetta di umanità esclusa da ogni diritto e prospettiva.

In un momento in cui il Ministro degli Interni propone addirittura il daspo dai territori per coloro che mostrano atteggiamenti “antisociali”, l’Università dovrebbe invece svolgere la funzione di illuminare di una diversa luce il dibattito sulle nostre città, sulla sicurezza, sul decoro. Che ricerchi la radice del problema e lo combatta. Dovrebbe battersi per promuovere politiche di inclusione, mettersi al servizio dei quartieri per immaginare e costruire città diverse, dove ad esempio il libero accesso a una biblioteca sia un diritto non negoziabile. Ma nella loro progressiva dinamica di aziendalizzazione, i nostri atenei vanno sempre più perdendo questa funzione di analizzare criticamente la realtà, chiudendosi nella difesa privatistica dei propri interessi, percependosi sempre più come fornitori di servizi, piuttosto che come istituzioni volte alla diffusione di una cultura diversa da quella dominante.
In tutto ciò, a quanto pare, gli unici che nel tempo hanno tutelato la vivibilità della biblioteca anche di fronte a episodi difficili da affrontare, sono stati proprio gli studenti che la frequentavano abitualmente. Senza bisogno di tesserini, tornelli e quant’altro. Semplicemente con la forza collettiva che viene dal prendersi cura collettivamente degli spazi che si vivono. Proprio quelli che sono stati manganellati brutalmente dalla celere che doveva riportare ordine e sicurezza.
In definitiva, è un approccio miope e riduttivo quello dei tanti che in questi giorni discutono intorno all’ “affaire tornello” come si trattasse di una semplice questione di buon senso. Quel che accade a Bologna è paradigmatico rispetto a una questione generale di emergenza sociale che riguarda tutte le nostre città e che viene costantemente affrontata con politiche securitarie, barriere, restrizioni e nuove linee di divisione tra chi è dentro e chi fuori. Dentro e fuori i confini, dentro e fuori le graduatorie per l’accesso agli studi, dentro e fuori la continuità di reddito, dentro e fuori una casa in cui vivere. E bisognerebbe capire che dopo anni di tagli e austerity soprattutto i più giovani rischiano di esser sempre più spesso fuori.