Delegati operai e democrazia diretta in Fiat nel '69 un inedito del luglio del 1969

Sun, 02/02/2014 - 20:23
di
Pino Ferraris

Non è facile offrire informazioni che possano aiutare la lettura di un testo politico che viene alle stampe separato da un più ampio discorso di contesto ed a quasi trenta anni di distanza dagli eventi sociali e politici nei quali si calava e dei quali era espressione.
Cercherò di stilare alcune annotazioni di accompagnamento alla lettura e, soprattutto, tenterò di indicare alcuni percorsi bibliografici utilizzando la pubblicazione di questa modesta testimonianza del passato come un piccolo «pretesto» al fine di incentivare l’impegno a rivisitare esperienze ed idee vinte e quindi espulse dalla storia e dalla memoria.
La data. Queste note sono state scritte nel luglio 1969 nella Torino arroventata dal processo di radicalizzazione e di espansione di lotte operaie assolutamente nuove che avevano investito la Fiat, ma che erano anche dilagate nella città ed erano diventate un punto di riferimento politico, culturale e simbolico di carattere nazionale.
Quella fase trovava una momentanea sospensione per l’imminenza delle ferie d’agosto.
Si tentavano i primi bilanci dell’esperienza passata e si ipotizzavano appuntamenti con l’autunno.
Come usava allora, nel turbine dell’azione, queste note le scrissi in modo disordinato, concitato e polemico, come appunti e spunti di riflessione, di orientamento da offrire in anticipo ad un centinaio di operai Fiat, protagonisti delle lotte della primavera-estate, che in agosto avrebbero tenuto un seminario di dibattito politico a Tropea.
Io allora ero segretario della Federazione del Psiup di Torino e membro della direzione nazionale di quel partito.
Gli operai cui era destinata questa sorta di relazione politica in gran parte si riconoscevano nell’esperienza e nella linea politica del «Giornale di lotta» sostenuto e ispirato dai gruppi di lavoro di fabbrica dello Psiup di Torino1.
Il testo circolava ciclostilato ed anonimo.
Esso rivela chiaramente che si tratta di una affrettata stesura di appunti a «fini interni», cioè con l’intento, anche pedagogico, di esplicitare i punti fermi di una linea politica che necessitava ripensamenti ed adeguamenti.
E’ questo un documento che può testimoniare di come eravamo, di come pensavamo e di che cosa volevamo in quegli anni lontani nel tempo ma ancora più distanti (quasi irraggiungibili) per quanto riguarda il clima politico, sociale e culturale nel quale allora eravamo immersi.
Nel mese di agosto più di cento persone montarono le tende in un campeggio della cittadina calabrese, issando con esse una selva di bandiere rosse. Per più di una settimana, in gruppi ristretti ed in assemblee generali, sulla spiaggia e nel campeggio, si discusse delle lotte fatte, della linea politica ed organizzativa, della scadenza del rientro autunnale. Alcuni dei primi e più prestigiosi delegati operai arrivarono a Tropea con la lettera di licenziamento consegnata loro dalla Fiat il 31 luglio, l’ultimo giorno di lavoro prima delle ferie.
Il documento ha un suo centro politico, teorico ed analitico quasi ossessivo: come interpretare, come dare respiro politico e sviluppo associativo all’insorgere, nella più grande concentrazione operaia italiana ed europea, del movimento politico di massa? Come cogliere e far comprendere la «assoluta originalità della lotta operaia a Mirafiori in quanto esprime la ricomposizione naturale della classe (attraverso la lotta interna, le assemblee e i delegati operai) in «raggruppamenti organici» di squadra, di reparto, di officina, che tendono ad unificare lotta economica e lotta politica nelle mani delle masse autoorganizzate»?
La linea del «Movimento politico di massa» era il risultato di un non breve pro- cesso di esperienza e di riflessione: in sostanza questa proposta esprimeva una critica radicale della «divisione del lavoro» tra partito politico parlamentare e sindacato economico rivendicativo, divisione del lavoro vista come la radice da cui si originava la catastrofica rottura del nesso tra emancipazione sociale e liberazione politica 2.
Con scarsa fortuna nel 1968 avevamo cercato di difendere dalla deriva «gruppettara» il carattere originario del movimento studentesco come movimento politico di massa anti-autoritario.
Nella mia relazione introduttiva al convegno nazionale del movimento studentesco, tenutosi a Venezia dal 2 al 6 settembre del 1968, affermavo: «L’apporto più originale e sconvolgente delle lotte studentesche non consiste tanto nelle «idee» o nella «volontà» di contestazione globale, ma nell’esistenza stessa del M.S. come movimento politico di massa.
Le lotte studentesche non hanno forzato quantitativamente i vecchi schemi, non hanno fatto nascere un sindacalismo massimalista e un partito più rivoluzionario, ma hanno prodotto una realtà qualitativamente nuova, il movimento politico di massa che è la critica vivente ed agente della strategia riformista...».
Alla fine del mese di aprile del 1969 usciva un libro dal titolo: Per un movimento politico di massa nelle cui 260 pagine fitte si raccoglieva la documentazione di due anni di lavoro politico alla Fiat, da parte dei gruppi del Psiup torinese. Sul retro della copertina si citava una brano della introduzione:
«Ciò che più colpisce osservando la Fiat è lo squilibrio, tra forze reali e istituzioni, per cui le prime tendono ad uscirne. Tale squilibrio riguarda sia lo sviluppo della Fiat, che si trova a fare i conti con i limiti e le ristrettezze degli organismi amministrativi e della classe dirigente politica, sia la classe operaia che non ritrova più nelle proprie organizzazioni attuali uno strumento efficace di lotta. Tutto questo sarà pagato d’ora in poi dalla Fiat, in quanto lascia la possibilità di conflitti non istituzionalizzati, imprevisti ed incontrollabili»3.
Si parlò di un libro profetico perché nelle stesse settimane in cui veniva diffuso e letto diventavano attive e si espandevano forme di lotta e manifestazioni di coscienza politica operaia previste e annunciate.
Con lo sciopero di Battipaglia dell’11 aprile si apriva infatti dentro la Fiat il lungo percorso della conflittualità articolata e ininterrotta nei reparti e nelle officine che avrebbe portato alle giornate roventi del luglio.
Lo sciopero nazionale «moderato», di sole due ore, dichiarato dai sindacali, si trasforma, dentro la Fiat, in uno sciopero «radicale»: diventa la prova generale dello «sciopero interno». Gli operai non si limitano a stare a casa o ad essere tenuti fuori dai picchetti ma devono organizzare direttamente la fermata del lavoro reparto per reparto, di fronte e contro la presenza della gerarchia aziendale Fiat.
In occasione di questo sciopero accade un fatto straordinario all’interno di questa fabbrica che da più di tre lustri è una sorta di grande caserma: si svolge, improvvisata, la prima assemblea operaia. Morini, uno degli operai che, alla fine di luglio, arriverà a Tropea con la lettera di licenziamento in tasca, sale sul tavolo della mensa e incomincia a spiegare il significato della lotta a 1.500 operai.
Morini è un operaio professionale delle officine Ausiliarie (8.000 operai).
Il giorno dopo viene spostato dalla direzione aziendale. Un altro compagno ripete l’assemblea in mensa chiedendo la revoca del provvedimento. La Fiat cede rivelando la sua vulnerabilità.
Poco dopo parte lo sciopero delle officine ausiliarie durante il quale nascono i primi «delegati di lotta». In giugno uscirà lo «storico» Appello dei delegati di squadra delle officine Ausiliarie che definisce il ruolo delle assemblee, la figura del delegato di gruppo omogeneo, i requisiti di potere di assemblee e di delegati e avanza, per la prima volta, la proposta «di riunire un Consiglio di delegati operai della Fiat».
L’intervento dei gruppi esterni avviene nella seconda metà di maggio quando la lotta è ormai in corso da più di un mese. Si costituisce l’«assemblea studenti-operai» delle Molinette. In essa operano circa 150 giovani provenienti dal movimento studentesco torinese guidati da Sofri e una cinquantina di militanti de «La Classe» (Toni Negri, Scalzone, Magnaghi), in gran parte provenienti da fuori Torino. E’ una massa d’urto notevole alle porte di Mirafiori che incontra importanti adesioni soprattutto tra gli operai delle linee di montaggio.
La linea del movimento politico di massa, dell’autorganizzazione operaia sulla base di assemblee, delegati di squadra e consiglio dei delegati, si trova presa all’interno di una morsa micidiale: da una parte la proposta sindacale degli «esperti di linea» (figura istituzionalizzata di emanazione sindacale), dall’altra parte la risposta che viene dalla assemblea delle Molinette «siamo tutti delegati». La polemica sviluppata all’interno di questo scritto contro gli «ufficiali» e i «minoritari» riflette la tensione e le difficoltà nello scavare uno spazio di tenuta e di uscita dalla tenaglia di questa doppia pressione.
La posta che allora, nel momento più alto del conflitto, era in gioco, a mio avviso, veniva colta in modo abbastanza chiaro: o si prosegue lungo una linea di massa antiautoritaria ed autogestionale, oppure si ripiega fatalmente dentro una logica della circolazione delle élites al potere (i rivoluzionari al posto dei riformisti oggi, domani i riformisti al posto dei democristiani). In questa prospettiva mi pare ancora oggi efficace la critica misurata, attenta e rispettosa che viene rivolta al lavoro molto serio del Cub della Pirelli.
Questo documento, molti anni dopo, è stato offerto come uno dei testi proposti per un dibattito su «democrazia diretta e critica della politica». La discussione si è svolta con Luigi Ferrajoli e Raffaele Sbardella presso il Cipec di Roma il 17 febbraio del 1992 4.
Tra la logica della circolazione delle élites e la logica anti-autoritaria che mira a mettere in discussione il principio elitista in quanto tale «io – confermavo nel 1992 – continuo a collocarmi dentro questa ultima scelta: non tanto la conquista del potere, ma la trasformazione anti-autoritaria e libertaria del potere sta al primo posto».
E aggiungevo: «L’apertura della terza dimensione (tra partito e sindacato), cioè quella della prospettiva e della realtà dei movimenti politici di massa, rappresentava una concreta ed agente critica della politica e voleva esprimere l’incapacità di partiti e sindacati (comunque riformati) di contenere e di rappresentare la novità e la ricchezza dei pro- cessi di politicizzazione del sociale che si realizzavano in quegli anni».
Nel corso di quell’incontro esprimevo invece perplessità su alcuni filoni di pensiero che percorrono questo scritto.
All’interno di questo documento oggi scopro un inquietante paradosso: da una parte sono presenti forti richiami alla soggettività e quindi alla libertà operaia, d’altra parte non può sfuggire che esso è permeato da residui pesanti di determinismo «naturalistico» («leggi fisiologiche del movimento», «ricomposizione naturale» della classe operaia, ecc.).
Ho cercato di spiegarmi il perché di questa contraddizione.
In quei mesi dell’estate 1969 torinese vedevamo e vivevamo certamente un grande evento di esplosione della libertà operaia. Quando però ci accanivamo nella ricerca delle «cause» ci sembrava di scorgerle nell’attivazione di una sorta di automatismo sociale: il ribaltamento immediato degli aggregati coatti degli operai sfruttati in comunità di uguali in lotta di liberazione.
Inoltre era indubbia l’influenza di un certo «organicismo» dello stesso Gramsci ordinovista (vedi la contrapposizione secca tra «raggruppamenti organici» e «raggruppamenti volontari»).
Questi sono gli aspetti del mio modo di vedere di allora che non condivido oggi. Ritengo che siano stati errati allora e improponibili oggi.
Un breve cenno per dire chi eravamo. Una cultura e una esperienza politiche, la maturazione di una rete di militanti non sono cose che si improvvisano.
Silvano Miniati, scrivendo appunti piuttosto sommari e approssimativi (per non dire tendenziosi) sulla vicenda dello PSIUP, dedica un capitolo all’«assenza scontata ma pesante» di Raniero Panzieri nella costruzione di quel partito. Alla fine del capitolo mi chiama direttamente in causa, scrivendo: «Quando Pino Ferraris e i compagni che erano allora assieme a lui decideranno di riordinare e rendere pubblici i loro ricordi sull’eccezionale esperienza di lavoro operaio alla Fiat [...] sarà sicuramente più facile per tutti capire quanto profonda sia stata l’influenza di Panzieri su una parte del PSIUP»5.
Non è un caso però che Miniati, nel suo libro, non spenda poi una parola per parlare di questo gruppo che ha operato nel socialismo di sinistra, prima a Biella, poi a Torino, sempre con una certa influenza che andava oltre il luogo (fondamentale) di radicamento.
All’interno dello Psiup eravamo stigmatizzati ed isolati come dei «movimentisti anti-partito», dagli attori e osservatori esterni era facile buttarci addosso l’appartenenza al partito di Vecchietti per non fare i conti con le idee e le pratiche che portavamo avanti.
Il riferimento a Raniero Panzieri è però molto esatto e segna certamente la nostra matrice politica e culturale. La nostra partecipazione all’esperienza dei «Quaderni Rossi» è stata un poco particolare, piuttosto «periferica»: soprattutto volevamo avere i piedi ben piantati tra i 50mila tessili delle vallate biellesi.
Infatti quei «torinesi» del ’68 e del ’69 erano, in buona parte, i «biellesi» dell’«estate calda dei lanieri» del 19626 e dei giornali di fabbrica «Potere operaio» (1962- 1966) 7.
Su quella esperienza biellese che, agli inizi del 1967, approderà a Torino ha scritto una ottima ricostruzione Roberto Prato alla quale rimando gli eventuali cultori di minuziosa archeologia del movimento operaio8.
Voglio solo segnalare che Roberto Prato ha colto bene, sin dal titolo, la specificità operativa che distingueva l’esperienza biellese molto più centrata sull’attivismo della «comunicazione diretta» per la lotta, che non sulla «con-ricerca» analitica dei «Quaderni rossi».
Nella sua ricostruzione «stalinista» delle lotte alla Fiat fatta per i «Quaderni piacentini», Vittorio Rieser, (peraltro amico carissimo e intellettuale militante rigoroso) fa due soli cenni alla presenza dello Psiup torinese in quelle lotte. In un punto egli afferma che il nostro ruolo è stato quello di aver offerto una «facciata democratica» all’impresa rude di controllo delle lotte portata avanti dal sindacato attraverso i delegati. Il secondo cenno è più volgare ma anche più squisitamente staliniano: si avanza l’accusa di spargere «voci» circa strumentalizzazioni fasciste delle lotte più radicali.
Chi leggerà queste pagine scritte a caldo per stimolare orientamento all’azione e motivazione alla lotta di centinaia di operai potrà rendersi conto di quanto sia smisurata la distanza che separa la realtà dei fatti dalle «storie sacre» elaborate per conto dei grandi o dei minuscoli apparati.
Bisogna avere la pazienza di ritornare alle fonti e di esplorare gli archivi se si vuole reinventare una tradizione che ci aiuti nel presente e per il futuro.
Se non si trova spazio per questo paziente e intelligente impegno di «riscoperta» occorre rassegnarsi al fatto che il ’68, ad ogni scadenza decennale, lo racconterà sempre Mario Capanna.

II.APPUNTI PER UN DIBATTITO POLITICO SULLE LOTTE ALLA FIAT (LUGLIO 1969)
1. Comitati di base e movimento politico di massa.

Operando una necessaria semplificazione possiamo dire che, nell’attuale movimento di lotta alla Fiat, si sono scontrate tre linee politiche.
La linea ufficiale del sindacato (nella quale si è sostanzialmente identificato il PCI) tendeva ad un uso puramente contrattualistico della lotta operaia. Essa esprimeva la preoccupazione prevalente di evitare che l’incidente della imprevista lotta alla Fiat venisse a turbare una strategia sindacale già architettata e definita (la vertenza mensa subito e l’anno prossimo il contratto).
Tutto lo sforzo che veniva e che viene prodotto da questa parte è teso a contenere lo lotta alla Fiat dentro la camicia di forza della «giusta linea» della Fiom delle vertenze articolate.
Da questa parte viene divulgata la rappresentazione di una lotta operaia tranquilla che segue la direttiva sindacale, che si risolve in vertenze di «mestiere» (attrezzisti, carrellisti, presse, operai dei montaggi, meccanici..) e che realizza conquiste legittime di più avanzati strumenti di potere sindacale (comitati di cottimo ed esperti di linea).
Dall’altra parte sta la linea di intervento dei gruppi minoritari (non sempre coerente poiché convivono posizioni diverse e contrastanti). Essa, in buona sostanza, ha un obiettivo solo: quello di radicalizzare comunque lo scontro dirigendolo contemporaneamente contro il padrone e contro il sindacato.
Questo intervento è teso ad utilizzare le masse per finalità totalmente politiche di rottura delle mediazioni, di smascheramento delle rappresentanze riformiste, al fine di creare le condizioni preliminari per la costruzione di una «nuova avanguardia» attraverso i «comitati di base».
Queste due posizioni, apparentemente opposte ed inconciliabili, hanno però, con la demagogia salariale degli uni e il contrattualismo normativo degli altri, un punto di convergenza: essi contribuiscono potentemente alla deformazione e all’oscuramento di uno dei fatti più grandiosi della storia della classe operaia torinese in questo dopoguerra: la com- parsa embrionale, ma sicura, del movimento politico di massa alla Fiat attraverso quell’azione sociale che produce assemblee e delegati operai.
La polemica distruttiva contro il delegato operaio sviluppata dai gruppi minoritari è confluita con l’azione mistificatrice del sindacato che tende a ridurre questo fatto politico ad un modesto contributo al rinnovamento e all’espansione sindacali. Ciò che si tende ad oscurare ed a distruggere è il sorgere della prima forma visibile e concreta dell’auto- organizzazione delle masse.
Non è casuale questa confluenza, poiché, intorno allo lotta alla Fiat e sulla testa della classe operaia Fiat, «minoritari» e «ufficiali» si sono disputati il «diritto di rappresentanza», la riconferma o il ricambio dell’«avanguardia».
Per ambedue la classe operaia unificata in quanto tale negli organi della libertà proletaria, dell’autodeterminazione e del contro-potere, nel movimento delle assemblee e dei delegati, rappresenta un terzo incomodo che è meglio togliere di mezzo in quanto sequestra deleghe e rappresentanze sia politiche che sindacali, sia estremiste che moderate.
La nostra posizione si è qualificata nel riconoscimento dell’assoluta originalità della lotta operaia a Mirafiori in quanto esprime la ricomposizione naturale della classe (attraverso la lotta interna, le assemblee e i delegati operai) in «raggruppamenti organici» di squadra, di reparto, di officina, che tendono ad unificare lotta economica e lotta politica
nelle mani delle masse auto-organizzate. Lo sviluppo del movimento delle assemblee e dei delegati a Mirafiori è avvenuto,
in larga misura, come un processo fisiologico, come il risultato di una volontà di massa necessitata interiormente.
Le nostre avanguardie più che determinare hanno accompagnato, aiutato questo processo. Il sindacato si è buttato su questo evento per controllarlo. I «minoritari» hanno inutilmente contrapposto piccole idee e voce grossa ad una realtà che non riescono a capire perché non è interpretabile mediante i «manuali del rivoluzionario» oggi in commercio.
La comparsa del movimento delle assemblee e dei delegati operai alla Fiat non è un fatto isolato, non è un avvenimento solitario e atipico, ma riassume, potenzia e rilancia tutto il fermento di lotta e la ricerca di organizzazione di questa fase offensiva dello scontro di classe. Essa chiarisce quale è la tendenza fondamentale e quale deve essere l’obiettivo principale da perseguire nel corso di questo ciclo di lotte operaie: la ricerca della auto- organizzazione della classe in quanto tale, il passaggio dalla successione delle singole lotte con contenuti politici e conclusioni sindacali alla configurazione concreta delle prime forme e strutture del movimento politico di massa.

a) Obiettivo principale e obiettivo secondario.
Comitato di base o movimento politico di massa, raggruppamento organico della classe o associazionismo volontario delle avanguardie?
Questi due termini non si pongono in alternativa, anzi l’uno richiede l’altro ed è indispensabile la loro contemporanea presenza.
Tuttavia è fondamentale oggi, in questa fase, decidere qual’è l’obiettivo principale, quello rispetto al quale tutto deve essere funzionale, strumentale, subordinato.
Se si ritiene che in questo momento è prioritaria la costruzione del partito rivoluzionario attraverso i «comitati di base», come «momento transitorio di organizzazione delle avanguardie», è chiaro che allora si sottovaluta il problema della stabilizzazione del movimento di massa e addirittura si può arrivare ad instaurare un rapporto volgarmente strumentale rispetto alle masse, come fanno coloro che in Fiat usano la demagogia salariale per tenerle comunque in agitazione.
Porre invece come obiettivo principale il movimento politico di massa non significa negare la funzione dell’avanguardia, ma richiede di stabilire un corretto rapporto di «servizio» dell’avanguardia rispetto alla massa, spostando completamente l’attenzione sulla crescita dei livelli di coscienza politica di classe e sulle forme dell’organizzazione di massa.
Soprattutto nella fase iniziale del movimento abbiamo visto il ruolo insostituibile dell’avanguardia interna costruita intorno al «Giornale di lotta».
Infatti se l’esistenza, la comparsa del movimento politico di massa può essere in larga misura indipendente dalle avanguardie, il suo sviluppo e la sua direzione di marcia sono fortemente condizionati dalla presenza e dal ruolo dell’avanguardia. (Dobbiamo analizzare a fondo il rapporto avanguardia-movimento nelle officine Ausiliarie di Mirafiori).
L’ipotesi dell’attualità del movimento politico di massa poggia su una valutazione generale di questa fase di mancata stabilizzazione capitalistica e di offensiva di classe (tutta la massa può diventare rivoluzionaria) ma anche si alimenta nell’analisi particolare delle caratteristiche della lotta di classe nel capitalismo maturo con i nuovi nessi che si stabiliscono tra lotta economica e lotta politica e con le nuove possibilità che hanno le masse in lotta di elaborare autonomamente una loro coscienza politica.

b) Le contraddizioni della linea dei «comitati di base».
La linea dei comitati di base nella esperienza della lotta alla Fiat ha manifestato sino in fondo la sua inconsistenza e la sua sterilità. Infatti mentre l’imponenza dei 100.000 operai in lotta ha intimidito i «cacciatori di
avanguardie» che non hanno osato proporre la «miseria» dei comitati, essi si sono visti poi crescere di fronte l’altra realtà, quella dell’auto-organizzazione di massa (assemblee e delegati).
Perciò mentre non hanno potuto proporre una realistica e credibile organizzazione di avanguardie hanno sistematicamente attaccato i concreti e visibili embrioni di organizzazione di massa.
Questa linea che alla Pirelli (dove in realtà il comitato di base esisteva e l’auto- organizzazione di massa non c’era) ha visto una sua crisi drammatica, alla Fiat si è riproposta ed è ritornata come farsa.
Infatti nella Fiat le versioni «nobili», aggiornate e ritoccate della linea avanguardistica (es.: Sofri) non hanno retto ed è prevalso tra i minoritari un indirizzo di chiara matrice vetero-comunista (più soldi e lotta dura) che non lascia equivoci sul rapporto avanguardie e masse. Si parla di «scontro politico aperto» e lo si prepara con la più retorica e demagogica agitazione salariale: si fa la retorica del potere e la pratica dell’economicismo, scavando un abisso tra uno scontro che dovrebbe essere immediatamente politico-rivoluzionario e il livello della coscienza di massa che resterebbe tradunionista.
Si parla di «nuovi livelli di organizzazione», ma concretamente non si fa altro che tentare di demolire ogni positivo e determinato sforzo di realizzazione organizzativa delle masse. L’organizzazione è garantita e pura, è rivoluzionaria quando è un dover essere, quando è nella «mente», non appena si realizza e prende forma concreta è già nelle mani dell’avversario, è già integrata. L’invocazione rituale di una organizzazione indeterminata che deve venire (organizzatevi!) va di pari passo con la polemica distruttiva contro ogni attività positivamente organizzatrice delle masse (delegato operaio). Tutto questo si risolve nella creazione di uno squilibrio enorme tra compiti immediati di urto frontale contro l’avversario e disarmo organizzativo delle masse, conducendo (se dovessero realizzarsi le loro invocazioni) ad uno scontro disastroso tra masse disorganiche e i solidi istituti del potere capitalista.
In realtà tra le 200 lire di aumento e la rivoluzione non vi sono nessi, non c’è articolazione concreta, non c’è processo storico. L’immediatezza della rivendicazione resta tale, l’assolutezza della rivoluzione pure. Né gli obiettivi diventano rivoluzionari, né la rivoluzione diventa un obiettivo. Non vi è alcuna articolazione tra forme di lotta, obiettivi di potere, livelli di coscienza di massa e compiti organizzativi. Nelle masse più soldi e lotta dura, nel cervello delle avanguardie la rivoluzione.

c) Alcune osservazioni sull’esperienza della Pirelli.
Sull’esperienza del comitato di base della Pirelli è necessario che noi facciamo un dibattito collettivo. Infatti alla Pirelli si è prodotto lo sforzo più serio, più interessante e più nuovo di costruzione di una nuova avanguardia come gruppo egemonico interno alla lotta ed alla classe, non come avanguardia dottrinaria, ma come avanguardia agente.
Questa esperienza ha parecchi punti di contatto con quella del primo Potere Operaio di Pisa, anche se c’è una differenza sostanziale nella valutazione del sindacato. Alla Pirelli prevale una posizione molto critica ma realistica del movimento sindacale, nei compagni di Pisa c’è una valutazione moralistica ed intellettualistica del sindacato.
Tuttavia è interessante notare (vedi gli articoli di Sofri e l’opuscolo del Cub- Pirelli) come sia ai compagni di P.O. di Pisa, sia ai compagni del Cub della Pirelli, gli operai abbiano chiesto loro di trasformarsi in una nuova rappresentanza della classe («perché non andate voi a trattare? Noi vi diamo la delega. Proclamate voi lo sciopero, noi lo facciamo. Presentatevi alle elezioni di C.I., voteremo per voi»). Il rifiuto di questi compagni al cambio della delega è moralmente apprezzabile, ma è politicamente sterile e praticamente contraddittorio. Quando si è portata avanti una linea politica che ha condotto alla maturazione della esigenza di un semplice cambio della rappresentanza di classe (comitato di base come strumento di efficace supplenza dei cedimenti sindacali e del vuoto dei partiti) rifiutare di farsi carico di questi pesanti (e compromettenti) fardelli della rappresentanza significa lasciare via libera alla vecchia delega politica e sindacale.
Ma come e perché si è giunti a questa contraddizione?
Nel corso della lunga lotta alla Pirelli i compagni del CUB hanno fortemente sottolineato i temi della democrazia operaia, il problema delle assemblee, ma sempre e soltanto dentro una prospettiva immediata: come strumenti per risultati immediati che non andavano oltre il discorso dell’autogestione delle lotte.
Nella loro linea non è presente il salto dalla auto-organizzazione funzionale ad una singola lotta operaia, alla organizzazione di massa necessaria alla lotta di classe permanente, il salto dall’unificazione momentanea della classe negli scontri particolari, alla organica ricomposizione stabile della classe in quanto tale, dalla democrazia operaia come potere di controllo sulle lotte, alla democrazia operaia come produzione degli istituti della «libertà proletaria».
In questa situazione i punti di riferimento stabili della classe finiscono per restare fuori di essa: il comitato di base e il sindacato. La classe partecipa a questi momenti a lei esterni riunendosi in modo sempre più numeroso attorno al comitato (una sorta di partito sociale) e iscrivendosi in modo sempre più numeroso (900 nuovi iscritti alla CGIL) al sindacato. Non c’è rottura della specializzazione delle rappresentanze ed unificazione di economia e politica: finita la lotta la classe si disaggrega, si scioglie e si scinde nelle rappresentanze politiche e sindacali continuando a funzionare dentro la tradizionale cornice istituzionale.
Di fronte ad una linea che tende alla creazione di una «nuova rappresentanza», il discorso dell’«avanguardia interna», che si pone come mezzo e strumento per altro, e che quindi rifiuta di assumersi concretamente i compiti della rappresentanza per delega finisce con il creare la condizioni per la vittoria dei coerenti fautori della delega e dei professionisti della rappresentanza: i sindacalisti, il pci, i marxisti-leninisti, gli avanguardisti di «La Classe».
Il discorso dell’avanguardia interna è coerente se si precisa come funzionale al movimento politico di massa come totalmente strumentale a quell’ «altro» che è l’autogoverno delle masse.

2. Movimento politico di massa e lotta alla Fiat.
La comparsa del movimento delle assemblee e dei delegati alla Fiat, la fermentazione dei germi del movimento politico di massa nella lotta di Mirafiori ha trovato noi stessi molto impreparati, molto ad di sotto dei compiti del momento.
Abbiamo rischiato di sovrapporre l’attivismo spicciolo alla battaglia politica ed ideale.
Abbiamo rischiato di cadere nelle oscillazioni determinate dai successi o dalla sconfitte del momento, senza tenere ben fermi i principi e i giudizi di fondo sulla portata storica della tendenza che si manifestava.
Abbiamo rischiato di esaurirci nella produzione di contenuti rivendicativi, sottovalutando i colossali processi di trasformazione qualitativa della coscienza di classe e di modificazione dei rapporti di potere.
Abbiamo rischiato di confonderci con i suggeritori esterni invece di dare voce alla creatività ed alla spontaneità delle masse.
Occorre alzare il tiro e allungare il passo.

a) Coscienza operaia del proprio fare.
«Minoritari» e «Ufficiali» hanno prodotto una sistematica opera di deformazione e di svalutazione della qualità politica e dei caratteri originali di queste lotte. Essi non solo hanno contribuito ad isolare la lotta alla Fiat ma, soprattutto, hanno limitato e ritardato la presa di coscienza chiara, da parte dei lavoratori, della portata storica di ciò che stavano facendo e realizzando.
La lotta operaia alla Fiat non ha avuto una sua «voce»: è stata comunicata all’esterno attraverso schemi precostituiti, prismi deformanti di «interpreti» o ingenuamente fantasiosi o volutamente tendenziosi.
In sostanza la classe operaia della Fiat è rimasta imprigionata dentro la sua «lotta interna», non ha parlato in prima persona.
Questa falsa informazione è anche una falsa coscienza che si versa, a valanga, sugli operai in lotta creando una sorta di diaframma tra il fare e l’autocoscienza di quello che si fa.
Noi non abbiamo sviluppato con forza e chiarezza una battaglia politica ed ideale, un’opera ampia di comunicazione diretta, capace di creare attorno al movimento lo spazio politico vitale e indispensabile per la sua crescita.
Anche noi siamo stati «sorpresi» dall’accaduto e quindi non siamo riusciti ad interpretare fedelmente il senso politico di ciò che avveniva.
Abbiamo creato strumenti di «comunicazione diretta» nel micro, all’interno della classe, non siamo riusciti ad inventare forme di «comunicazione diretta» verso l’esterno.

b) Da Piazza Statuto al delegato operaio.
La classe operaia non è un «concetto» e non è l’incarnazione terreste dello Spirito hegeliano. Essa è una concreta e mutevole formazione storica che si plasma sulle determinate condizioni del lavoro industriale, che si forma e si trasforma, trova i suoi momenti di debolezza e di forza nei rapidi ricambi di generazione e nei vasti flussi di migrazione sociale e territoriale, nel travaglio delle esperienze politiche e culturali, nello sviluppo dei bisogni come nella crisi delle tradizioni.
Che cosa ha significato la sconfitta e la scomparsa, negli anni 50, della vecchia classe operaia Fiat, torinese, resistenziale, fiommista e comunista?
Che cosa ha significato l’immissione in massa nelle grandi fabbriche di un giovane proletariato, in prevalenza di origine meridionale, strappato dalle campagne, disperso nella metropoli, schiacciato nell’urto improvviso con l’industrialismo, senza avere la dura e lunga «educazione» delle generazioni del lavoro industriale, senza la tradizione della lotta antifascista, senza i solidi strumenti della propria unificazione ed identificazione, la Fiom e il PCI?
Da Piazza Statuto ai delegati operai, dalla rabbia istintiva dei figli esiliati della rivolta contadina alla lotta interna nella fabbrica e alla auto-organizzazione nelle squadre e nelle officine.
Dopo una soluzione di continuità, dopo una turbinosa vicenda di sconfitta politica e di disgregazione sociale, dentro la Fiat, a Torino, è avvenuta (nelle contraddittorie esperienze degli anni 60) la ricomposizione del proletariato industriale come forza sociale compatta, formata nel tirocinio del lavoro e dello scontro.
Stiamo vedendo questa ricomposizione di un giovane proletariato che cerca le forme nuove ed inedite nelle quali realizzare la propria identificazione, che cerca i nuovi strumenti e le nuove prospettive in cui esprimere la forza e la coscienza del proprio ruolo sociale e politico.
Non è un caso che questo giovane proletariato, invece di aderire alle tradizioni, agli strumenti e alle ideologie esistenti, invece di richiamare ciò che è stato fatto prima e da altri, inventi, con straordinaria creatività, i modi ed i mezzi della sua espressione: la lotta interna, le assemblee, i delegati.
E’ sulla base di una rottura drastica dei rapporti di potere esistenti e di un tagliente distacco dalle tradizioni sopravvissute che questa forza sociale va alla ricerca di nuova organizzazione e di nuove prospettive.
Fare i conti con il movimento di massa alla Fiat significa due cose: dare volto e nome, forze e forma alla nuova organizzazione della massa intera, esprimere una solida e nuova avanguardia interna capace di essere maggioritaria, realizzatrice e rivoluzionaria.

c) Modifica della realtà e trasformazione della coscienza di classe.
Il significato politico del maggio-giugno alla Fiat non si coglie e non si misura at- traverso dati quantitativi (durata e ampiezza della lotta, quantità dei risultati...). Questo significato si coglie nei mutamenti dei rapporti di forza, nel grado di rottura del «clima Fiat», nelle trasformazioni introdotte nella quotidianità delle relazioni degli operai rispetto all’organizzazione tecnica e gerarchica della fabbrica.
Questo punto di vista «politico» (e quasi «anti-economico») è ben presente in numerose avanguardie e in semplici militanti operai.
Parecchi operai affermano che il vero risultato della lotta non sono gli «accordi» ma l’aver cambiato il «clima» in fabbrica.
Vi sono lavoratori delle officine meccaniche che si mostrano delusi per il fatto che la Fiat non ha trattenuto anche a loro le 3mila lire del premio: se l’avesse fatto, dicono, sarebbe partita anche da noi la lotta e ora si vivrebbe in modo diverso nei reparti.
Nell’interpretazione politica di questa lotta l’attenzione alla rivendicazione immediata, alla piattaforma, alla tattica sindacale deve essere secondaria, o meglio deve essere vista tutta in un rapporto con la necessità primaria di liberare quel movimento che attiva la creatività delle masse.
Se perdiamo questo punto di vista politico rischiamo di fare del sindacalismo di sinistra, di trasformarci nella coscienza critica del sindacato.
Non dobbiamo temere le accuse di «culturalismo» e di «idealismo» se, insieme alle spinte dei bisogni materiali, cogliamo e esprimiamo con forza la «rivoluzione culturale» intervenuta nella coscienza delle persone in lotta, se diamo spazio alle manifestazioni dell’«uomo nuovo» che si forma dentro delle officine dove gli operai trasformando la realtà trasformano se stessi.
L’operaio che dopo anni ed anni di frustrata passività ha vinto le resistenze interne ed esterne ed è salito sul tavolo in mensa improvvisando un’assemblea è diventato un’altra persona: in quei pochi minuti si è rovesciato l’abituale modo di essere in fabbrica, di vivere il lavoro.
Le masse che dentro le officine «spadroneggiano» intimidendo i capi e proclamando ad alta voce la loro forza e la loro dignità manifestano una rapidissima e inedita forma di politicizzazione.
Vi sono parecchi operai che sino a ieri cercavano una via di fuga individuale dalla Fiat. Oggi dicono che non è più tempo di andarsene: l’esperienza di lotta, di solidarietà, di potere è così gratificante che «vale la pena di restare». La fabbrica da luogo di impotente alienazione è diventata per loro luogo di possibile liberazione.
Si creano nei reparti comunità che tendono a strutturarsi lottando contro gli spostamenti, le fughe individuali, esercitando solidarietà ma anche decisionalità collettiva (delegato senza delega): tutto ciò configura un universo morale e culturale nuovo ma questo universo coincide anche con interessi comuni di lotta e di conquista.
Percepire ed esprimere la vivacità, la ricchezza del reale livello della coscienza politica di massa non significa fare della «letteratura» ma vuol dire comprendere per organizzare e potenziare la soggettività rivoluzionaria delle masse, significa essere capaci di costruire una avanguardia interna che non importa dall’esterno coscienza e teoria, fa emergere coscienza e cultura latenti ma presenti tra le masse.

d) La nuova organizzazione operaia.
La nostra osservazione della fisiologia organizzativa che si produce e vive nella fabbrica non può limitarsi all’assemblea e al delegato. Questi sono due strumenti mediante i quali si realizza il raggruppamento organico, il collettivo omogeneo del «gruppo di lavoro» che è la cellula essenziale in cui si ricompone la classe.
Quali sono i momenti di passaggio dal gruppo informale di resistenza, al raggruppamento organico che conduce un’offensiva sindacale e che gioca un ruolo politico?
Quale è la minuta pratica quotidiana attraverso la quale il collettivo si costruisce, si riconferma, si stabilizza?
In primo luogo è necessario sottolineare la sostanziale diversità che vi è tra il «raggruppamento organico» e la «associazione volontaria» (sindacato, partito).
Il collettivo di squadra travolge le segmentazioni che si presentano nelle sovrastrutture, l’affiliazione sindacale, le divergenze politiche, le diversità regionali e culturali, con un’operazione violentemente riduttiva al dato unitario di fondo: l’oggettiva situazione di classe, la collocazione omogenea nello scheletro della macchina capitalistica di produzione. L’operaio appartiene al collettivo, all’unità elementare organizzata.
Occorre riprendere e sviluppare l’analisi gramsciana sulla differenza tra «raggruppamento organico» e «associazione volontaria» e riflettere su ciò che intendeva dire Gramsci quando affermava il carattere «pubblico» del primo e «privato» del secondo, il carattere «illegale» dell’uno e «legalitario» dell’altro, quando affermava che il primo tendeva verso la «dittatura democratica» e il secondo verso la «democrazia rappresentativa».
Occorre anche riflettere e discutere sui nessi percepibili tra costruzione del «raggruppamento organico» e «violenza» operaia.
Nelle analisi e nelle cronache delle lotte alla Fiat si tende a tacere di queste cose.
Occorre guardare in faccia le cose come sono. Nel gruppo operaio agiscono forme di costrizione interna alla disciplina collettiva e si dispiegano forme di intimidazione e di esercizio della forza verso l’esterno, verso la gerarchia aziendale.
Anche se non si manifesta in forme clamorose e fisicamente aggressive però la «violenza» percorre la fabbrica nei discorsi e nei gesti degli operai, nella paura dei capi e dei direttori.
L’assemblea è uno strumento importante mediante il quale si ricompone l’unità e si manifesta l’autodeterminazione degli operai. Tuttavia non dobbiamo mitizzarla. La circolazione dell’informazione e la formazione della volontà nella squadra e nello spezzone di linea non passano necessariamente attraverso l’assemblea. D’altra parte il metodo assembleare, mentre ha qualche difficoltà a vivere in modo permanente in fabbrica, si presta anche sia a manipolazioni autoritarie sia a derive democraticistiche.
Detto questo non si vuole sottovalutare l’importanza, soprattutto in questa fase, dell’assemblea come mezzo di informazione, di identificazione collettiva, di autogestione e di lotta.
Comunque occorre vedere se la figura centrale dell’auto-organizzazione operaia non sia il delegato.
Occorre sgombrare il terreno dai nominalismi: il delegato operaio in Fiat nasce dal rifiuto della delega.
Questo fatto intanto lo si coglie quando si consideri che il delegato, per la massa degli operai, si contrappone alla Commissione Interna e al sindacato come un «noi» che si pone di fronte ad un «voi».
Il modo operaio di concepire il delegato rifiuta il principio di rappresentanza. Mentre i lavoratori percepiscono perfettamente la parlamentarizzazione della C.I. e la vedono come istituzione esterna, essi vi contrappongono il delegato come una alternativa.
Il membro di Commissione interna è eletto dagli operai, ma su indicazione del sindacato e trae la sua forza e legittimità soprattutto dalla disciplina verso l’organizzazione e dal riconoscimento da parte dell’azienda. Egli è «autonomo» dalla base operaia, è indicato dal sindacato, ha il tempo libero per concessione del padrone, non è uno strumento della lotta operaia ma della mediazione tra operai e padrone. Quando gli operai affermano che il delegato è nominato solo dagli operai del gruppo omogeneo, che risponde solo ai lavoratori, essi non chiedono una riforma della commissione interna ma fondano un istituto qualitativamente diverso dalla Commissione Interna.
Questa radicale differenza si conferma nella polemica tra operai e sindacato sui cosiddetti «esperti di linea» previsti dall’accordo sindacale con la Fiat.
La discussione sul numero, cioè il rifiuto di accettare un «esperto» ogni 250 operai, ha un significato che va ben oltre le ragioni di efficacia. Gli operai colgono la differenza sostanziale che passa tra il rappresentante di 250 individui e l’esecutore della volontà collettiva organizzata (la squadra, lo spezzone di linea).
La qualità assolutamente nuova della figura del delegato si manifesta nel rifiuto della «specializzazione della rappresentanza», nel rifiuto della separatezza del «corpo rappresentantivo» dalla società.
Il delegato operaio (questo è senso comune in fabbrica) non deve essere come quelli della C.I. che girano con la camicia bianca e la medaglietta, il delegato deve avere le mani unte e la faccia sporca come tutti gli operai della squadra. Inoltre, a differenza dei «senatori» della C.I., il delegato operaio deve essere revocabile in ogni momento: se non riga dritto lo cambiamo subito.
La stabilità dell’organizzazione non ha niente a che fare con la stabilità della delega personale.
Proprio in questa fase iniziale della nascita dei delegati, la capacità di operare rapidi ricambi di persone si rivela di importanza decisiva.
Le prime nomine dei delegati non hanno potuto garantire una collaudata selezione delle persone. Sull’onda della lotta, dell’entusiasmo e dell’improvvisazione, possono prevalere personaggi demagogici, deboli, insicuri, il cui opportunismo o la cui fragilità si rivelano non appena cessa il momento caldo. D’altra parte, la repressione padronale agisce mediante spostamenti che colpiscono i delegati. L’esperienza del ricambio dei delegati è già in atto e manifesta sempre una capacità di risposta efficace del collettivo ad eventi imprevisti.
Dobbiamo fare molta attenzione a non creare il mito del «capo», come può essere implicito nella definizione del delegato, che abbiamo inserito nell’Appello delle Ausiliarie: qui il delegato l’abbiamo definito come l’«operaio più cosciente». Dobbiamo ridiscutere questo punto. Questo tipo di delegato operaio, così come oggi è nato dalle lotte alla Fiat, potrà scomparire, ma non può venire integrato. Può solo venire sostituito con una imitazione che ne assuma la forma e che ne muti la sostanza.
E’ necessario cogliere sino in fondo il senso di svolta, il salto di qualità che ha la comparsa del delegato operaio. Nel delegato il gruppo operaio è omogeneo, il collettivo della squadra si pone visibilmente ed operativamente nella forma di un potere organizzato che resta.
Per la classe operaia il passaggio dalla creazione di strumenti funzionali all’autogestione di singole lotte alla fondazione di una struttura permanente di identità separata e conflittuale, significa non sperimentare più la lotta come reazione immediata alla condizione del lavoro sfruttato, ma porre invece l’istanza di un contro-potere di massa stabile, il germe di un «nuovo ordine».
Sta emergendo l’esigenza di trovare le forme per una unificazione dei delegati in un movimento autonomo dei delegati.
Comunque non bisogna inventare formule artificiose, questo processo deve scaturire dalle esigenze reali di lotta.

3. Movimento politico di massa e sindacato.
Il rapporto tra il movimento politico di massa e il sindacato non può essere definito a priori e racchiuso in una formula.
Il movimento politico di massa deve essere visto come una «organizzazione progressiva», cioè come un organismo elastico e mutevole che vive dentro un processo storico non lineare di trasformazione di rapporti di forza e di livelli di coscienza. Le sue dinamiche di sviluppo possono manifestarsi sia in modo germinale, dentro la radicalità di un sindacali- smo di base, sia nella forma alta di un movimento politico consigliare.

a) Il pansindacalismo tra avventurismo e moderatismo.
Dobbiamo evitare di essere coinvolti in alternative semplicistiche e polarizzate.
Da un lato vi sono coloro che mettono in alternativa movimento e sindacato, proclamando la fine del sindacato. Dall’altra parte vi è la posizione pansindacalista che afferma il sindacato come espressione totale di tutta la classe e quindi pretende di ricondurre ogni movimento e ogni momento dell’azione di classe come semplici articolazioni del sindacalismo. Queste due posizioni si sono rozzamente manifestate nel corso della lotta alla Fiat.
Gli uni affermano: gli operai da una parte, e dall’altra i sindacati e i padroni insieme. Gli altri sentenziano: chi non è con il sindacato è con il padrone.
Il pansindacalismo oscilla tra una sorta di sindacalismo rivoluzionario piuttosto avventurista e un moderatismo spaventato e conciliante. Nelle sue tentazioni estremistiche rischia di operare una provocazione sindacale al sistema, il quale poi reagisce con strumenti politicicontrounaclasseoperaiacheilsindacalismolasciapoliticamentedisarmata. Allora vediamo operare rapide ritirate verso la legalità moderata.
Non possiamo cedere ad analisi rozze che non vedono la differenza che passa tra l’arma dei carabinieri e la confederazione generale del lavoro, e neppure sottometterci al ricatto dell’integralismo sindacalista che non vuole ammettere l’emergere vistoso di una politicità che nasce dal sociale e che va oltre i suoi orizzonti e che richiede ed esige strumenti e forme organizzative autonome, anche se non necessariamente antagoniste, rispetto al sindacato.

b) Le oscillazioni e le contraddizioni del sindacato.
L’atteggiamento degli operai verso il sindacato è contraddittorio, esprime insieme adesione e critica, riconoscimento e sconfessione.
Solo un intellettuale, totalmente esterno ed estraneo ai pesanti condizionamenti materiali e gerarchici che gravano dentro la fabbrica, può saltare con disinvoltura il mo- mento sindacale. Per la classe operaia non solo non è indifferente avere o non avere una tutela sindacale in fabbrica, ma per gli operai è cosa che conta parecchio disporre di un sin- dacato di classe o dover fare i conti con un sindacalismo burocratico e moderato.
In momenti come questi, non è certo il caso di chiudersi in battaglie nei direttivi sindacali, tuttavia non si può evitare di vedere la linea politica del sindacato come un terreno importante di confronto e di scontro.
Il sindacato è per definizione ambivalente, nella sua collocazione tra le masse e le istituzioni.
In questa fase di passaggio da una fase di lungo riflusso ad un periodo di offensiva di classe, assistiamo ad un fenomeno complesso di sindacalizzazione di massa e di contemporaneo scavalcamento del sindacato, da parte delle masse.
In momenti come questi il sindacato è preso in una drammatica alternativa tra la rottura con il sistema e la rottura con le masse. Questa situazione mossa e contraddittoria crea tensioni tra sindacato e partiti di sinistra e all’interno del sindacato. Individuare queste contraddizioni e operare su di esse è vitale per aprire spazi di crescita al movimento politico di massa.
Nelle recenti lotte alla Fiat questi sbandamenti del sindacato sono stati clamorosi. Nel giro di poche settimane, di pochi giorni, il sindacato è passato da posizioni di riconoscimento della legittimità della base operaia nel promuovere lotte («copriamo ogni lotta di reparto e di officina») alla brutale discriminazione tra sciopero ufficiale (tutelato) e sciopero non ufficiale (abbandonato alla repressione); è passato da una copertura informale dei delegati di lotta all’abbandono dei delegati di squadra dell’officina 13 alla repressione, sconfessando anche la lotta di autodifesa degli operai di quella officina.
Queste oscillazioni sono anche la manifestazione di profondi contrasti nel corpo ed ai vertici del sindacato. La nostra impotenza ad agire su queste rotture interne, la nostra in- capacità di favorire sviluppi che siano l’inizio di una crisi del monopolio comunista del sindacato è un fatto grave, sul quale riflettere soprattutto per le possibili conseguenze future.
Dobbiamo essere consapevoli che non è ipotizzabile la crescita di un movimento politico di massa vincente sulla base delle assemblee, dei delegati e dei consigli, dovendo fare i conti con un sindacato lasciato totalmente in altre mani, senza cioè ottenere una qualche influenza sul sindacato stesso.
Non dobbiamo farci alcuna illusione, dobbiamo avere ben chiaro che all’interno di una fase di pausa, di stasi del movimento, passerà una energica azione dei sindacati per ristabilire un controllo rigido sulle masse, per liquidare i focolai di iniziativa operaia autonoma.
Già abbiamo avuto qualche avvisaglia. Nel breve periodo di rallentamento tra la prima e la seconda fase della lotta (officina 13, congresso CGIL, nostro rapporto di rottura verticale con la V Lega).
La complessità dei problemi è quasi disperata, rispetto alle forze che siamo in grado di mettere in campo, tuttavia nessun livello dello scontro deve essere trascurato: non il tentativo di lanciare un processo di aggregazione dei delegati nei consigli, non il coordinamento e la stabilizzazione delle avanguardie politiche, non la costruzione di una tendenza sindacale di base, che assolutamente non ha niente a che fare con l’attuale componente sindacale dello Psiup.

c) Sindacalismo di base.
Nonostante che, a livello micro, sia andato avanti quel processo di costruzione dei raggruppamenti organici di squadra e di reparto, a livello macro dobbiamo prendere atto che resistono diversità profonde tra le tre grandi aree professionali di fabbrica: Ausiliarie (8 mila operai), Meccaniche (22mila), montaggi (23mila).
L’assottigliarsi della busta paga in conseguenza degli scioperi, congiunto con l’aumento del costo della vita, ha esasperato le legittime rivendicazioni salariali che, in alcuni casi importanti, sono state viste come alternative agli obiettivi di potere e alle rivendicazioni di controllo.
Questa situazione è stata cavalcata dai «minoritari» soprattutto alle linee di montaggio.
Pressata tra l’impresa di istituzionalizzazione sindacale del «potere» e la demagogia salariale, tra le 200 lire di aumento e gli «esperti del cottimo», la nostra linea politica trova serie difficoltà.
Scontiamo un limite del nostro precedente lavoro di fabbrica che non ha avuto tempo e possibilità di estendersi adeguatamente ai montaggi e quindi non abbiamo potuto percepire ed incorporare le culture, i bisogni di questa fascia operaia.
Come fatto positivo dobbiamo però rilevare che dove più forte è stata la manifestazione dell’autorganizzazione operaia (Ausiliarie e meccanica) il sindacato non è riuscito ad avanzare proposte di istituzionalizzazione dei delegati. Questi sono spazi estesi e forti sui quali puntare sia per radicare un sindacalismo di base e radicale, sia per rilanciare, in autunno, il movimento dei delegati e dei consigli.
Deve essere ben chiaro che la costruzione di forme di sindacalismo di base attorno ai delegati di squadra che vivono questa loro ambivalenza, tra spinta sindacale e radicalità politica, dobbiamo vederla come una fase transitoria che ci garantisce attualmente gli spazi operativi e politici all'interno dei quali rilanciare, negli scontri dell'autunno, l’organizzazione politica di massa che riapre la prospettiva del dualismo del potere.

1 «Classe, Quaderni sulla condizione operaia e sulla lotta di classe», n. 2, febbraio 1970, Dedalo libri.

2 Cfr. Pino Ferraris, La strategia del movimento operaio, in «Problemi del Socialismo», n. 35-36, ott.-nov. 1968, e anche Pino Ferraris, A proposito di delegati. Una critica da sinistra?, su «Il Manifesto, n. 3-4 , marzo- aprile 1970.

3 Per un movimento politico di massa. Raccolta di documenti della lotta di classe e del lavoro politico alla Fiat, Musolini Editore, Torino 1969.

4 Pino Ferraris, Il 68 e l’autunno caldo, in Per il Sessantotto, a cura di Diego Giachetti, Massari Editore 1998.

5 Silvano Miniati, Psiup, 1964.1972, Edimez, 1980.

6 Pino Ferraris, Cronaca ragionata della lotta estiva dei lavoratori biellesi, in «Mondo Nuovo», giugno 1962.

7 «Potere Operaio». Un’esperienza di giornale di fabbrica nel biellese, 1962-1966, a cura di Cesare Bermani,
Edizioni del Gallo, Milano, 1968.

8 Roberto Prato, Militanti operai e comunicazione diretta. Il caso delle fabbriche biellesi (1961-1977), in «Collegamenti Wobbly», n. 1, gennaio-giugno 1995.