Rivoluzione e Autogestione: dall'Ottobre 1917 al “socialismo del XXI secolo”

Tue, 12/12/2017 - 17:14
di
Catherine Samary*

Non tutti i passati hanno un identico futuro, possiamo affermare con Daniel Bensaïd. L'Ottobre 1917 non si lascerà seppellire facilmente. La sua immensa eredità, che dobbiamo saper attualizzare, è aver osato mettere all'ordine del giorno la trasformazione dell'ordine esistente – senza ricette e non senza errori tragici – scontrandosi con la guerra e le violenze sociali dei potenti, su scala nazionale e internazionale.

Tuttavia, cento anni dopo, nonostante l'ipotesi comunista sembri ormai fuori gioco, molti elementi comuni ci avvicinano alle sfide dell'Ottobre. La tesi menscevica, secondo la quale si sarebbero dovuti attendere dallo sviluppo del capitalismo i progressi sociali e democratici che avrebbero condotto al socialismo, non è condivisa ormai da nessuno: la socialdemocrazia ha scelto di adattarsi all'ordine neoliberale. Il capitalismo si è nuovamente mondializzato in maniera più organica che mai, rendendo impensabile la "costruzione del socialismo in un solo paese", anche se ogni resistenza deve essere saldamente ancorata a livello nazionale. Una “terza guerra mondiale” sociale e disastrosa dal punto di vista ambientale si è dispiegata dagli anni Ottanta del secolo scorso, espellendo dalle possibilità qualsiasi opzione democratica, così come aveva espresso lo slogan di Margaret Thatcher: TINA - “There is no altervative” (Non c'è alternativa).

Questa affermazione è negata da coloro che lottano per un'alternativa. Il movimento di resistenza emerso ad esempio nel Chiapas e organizzato dagli anni Novanta in reti multiple contro questa nuova mondializzazione ha potuto sperare di "cambiare il mondo senza prendere il potere". Allo steso tempo esistono molteplici lotte per “rompere” con il capitalismo: dalle reti che si appropriano del software libero a quelle che intrecciano tra loro le "città ribelli"; dalle resistenze guidate da Vía Campesina, alla Comune del Rojava ispirata alle tesi di Murray Bookchin. Abbiamo anche assistito ad un ritorno di risposte “stataliste” o "populiste di sinistra", così come all'appello di Hugo Chávez a pensare un "socialismo del XXI secolo".
Dovremo ripensare come cambiare il mondo, senza minimizzare il pericolo costituito da pseudo-alternative antisistema xenofobe, e senza ricadere nei mali burocratici del passato. Dobbiamo quindi fare un bilancio dei progressi e delle sconfitte del "secolo sovietico" approfittando di un'occasione unica: la prospettiva che ci permette oggi di mettere assieme diverse esperienze che si scontrano non solo con le minacce borghesi interne ed esterne contro i progetti di sovversione dell'ordine capitalistico, ma anche i rischi di cristallizzazione burocratica e statalista. Questi rischi sono intrinseci al movimento stesso se non vengono combattuti in maniera consapevole [1].

La spinta della rivoluzione del 1917 [2] è stata alimentata da una potente e impressionante mobilitazione “dal basso” (nelle fabbriche e nelle campagne) e da un embrione di potere popolare "dall'alto" dal momento dell'istituzione del soviet, soprattutto nell'esercito, dove si intrecciava l'alleanza tra lavoratori e contadini.
I bolscevichi non hanno ottenuto la maggioranza nei soviet e nei comitati di fabbrica o legittimato la presa del potere insurrezionale con un astratto appello alla rivoluzione o al “socialismo” (il cui contenuto era controverso persino nelle proprie fila). L'hanno ottenuta perché avevano presentato “il potere dei soviet come unica alternativa alla controrivoluzione”; e perché questa analisi "corrispondeva alla realtà" vissuta. "Tutto il potere ai soviet" significava, quindi, concretamente diritti sociali, la legalizzazione del controllo dei lavoratori in fabbrica e nei campi per quelli che lavorano la terra, come hanno mostrato i primi decreti di ottobre.

Nemmeno la rivoluzione di febbraio era solamente anti-zarista e "democratico borghese": senza dichiararsi "socialista" era profondamente "democratica antiborghese" grazie alla mobilitazione dei soldati e dei contadini la cui alleanza si intrecciava nei soviet dei soldati. La divergenza principale tra bolscevichi e menscevichi era legata alla posizione di fronte alla guerra, e non riguardava, in questa fase, la concezione del partito: era tra loro condivisa la volontà di radicarsi nelle masse. La divergenza strategica riguardava la scelta dei menscevichi di allearsi con le cosiddette correnti "democratico borghesi" contro l'opzione bolscevica del sostegno alle mobilitazioni e ai soviet degli operai e contadini, per la difesa dei loro diritti e contro le guerre imperialiste in una prospettiva di sfida rivoluzionaria all'ordine mondiale.

Contro il boicottaggio padronale, “i lavoratori rispondevano mettendo in pratica nelle fabbriche il modello contadino con cui avevano familiarità”, dice Marc Ferro: "l'assemblea generale dei lavoratori corrispondeva al 'obchtchetstvo', la gestione collettiva nella forma del 'Mir' o del 'Artel', cioè il “Consiglio degli anziani” dal quale deriva il Consiglio di fabbrica, che rappresenta in questo senso la trasposizione delle tradizioni del paese o del villaggio. Un collettivo di fabbrica si relazionava ad un altro come un paese faceva con un altro paese. Questi lavoratori volevano essere i proprietari della fabbrica allo stesso modo in cui ritenevano che la terra dovesse appartenere a chi la lavorava. È vero d'altra parte che questo "movimento autogestionario" era "molto più vivace quanto più la fabbrica era piccola”, perché le responsabilità sembravano più alla loro portata e veniva assicurata la partecipazione di tutti.
Questo non avveniva nella fabbriche più grandi, le quali, vista la loro importanza, rimanevano in capo al movimento dei comitati di fabbrica, senza quindi essere autogestite. In quelle imprese, gli operai giudicavano come “utopistica” l'autogestione e privilegiavano "la nozione di controllo operaio come sistema operativo del quale sarebbero stati i custodi. Questo controllo sarebbe stata la loro garanzia contro gli abusi: ancora di più, li avrebbe protetti dalla disoccupazione e trasformati in partecipanti con diritti”, senza contare la possibilità di optare per la gestione diretta o per la necessità di una nazionalizzazione in caso di serrata padronale.

I bolscevichi erano popolari nei comitati di fabbrica visto che mettevano l'accento in tale "controllo operaio" per combattere il sabotaggio padronale e le posizioni dei menscevichi nei sindacati. Al contrario diffidavano dell'autogestione, e persino del “controllo operaio” se si fosse evoluto verso una gestione frammentata delle fabbriche: questa veniva percepita come anarchica, fattore di caos e di comportamenti “egoistici" [3].
La dimensione pragmatica razionale di questo punto di vista andava di pari passi con la convinzione teorica (molto discutibile) dominante allora in Lenin e molti marxisti secondo i quali la concentrazione capitalistica, così come la sua “organizzazione scientifica del lavoro” preparava il passaggio al “socialismo". La nazionalizzazione avrebbe soppresso l'anarchia della proprietà privata e del mercato capitalista, in quanto avrebbe consentito il censimento tecnico delle risorse.

Marc Ferro sostiene che "in pratica i bolscevichi erano convinti che l'assunzione del controllo delle fabbriche da parte dello “stato operaio” era di per sé una garanzia contro il sistema di sfruttamento". E, aggiunge, "in fondo questo era il convincimento della maggioranza dei militanti, ad eccezione degli anarchici". Fu sulla base di questa logica di un “controllo operaio” fondato sui comitati di fabbrica che ai sindacati, organizzati a livello settoriale e nazionale, venne progressivamente consegnata la funzione della "gestione" una volta che i bolscevichi presero il potere.

In ogni caso, l'autogestione è fallita. Le ragioni non stanno tanto nella diffidenza dei bolscevichi, visto che le proposte degli anarchici erano ampiamente minoritarie nei comitati di fabbrica anche prima del "comunismo di guerra", del tragico errore della repressione di Kronstadt o della proibizione dei partiti e delle tendenze all'interno del partito bolscevico.
La logica dell'autogestione atomizzata delle imprese si è scontrata con il potente boicottaggio padronale, in primo luogo, e successivamente con la necessità oggettiva di un'organizzazione nazionale della produzione - in particolare rispetto alla fornitura delle materie prime e all'organizzazione delle reti di trasporto. Per questo nel 1917 molti anarchici si unirono ai bolscevichi e, come loro, si divisero rispetto alle le difficoltà del passaggio da una logica "contro" ad una, alternativa, logica di costruzione di una nuova società.

Il fallimento dell'autogestione di cui parla Marc Ferro, andava di pari passo con il collasso dell'economia: “volontariamente o forzatamente, i lavoratori accettarono la formula della nazionalizzazione con controllo operaio. Questa formula sembrava più adatta alla lotta contro il Capitale e siccome era accompagnata da misure contro il padronato e da molte decisioni a favore dei lavoratori, veniva vissuta come una vittoria della rivoluzione. E in questo senso lo era”.

Ma, aggiunge Marc Ferro, si è verificata una trasformazione del potere. Non verso la classe operaia in quanto tale, ma verso "coloro che, avendo approfittato della sua fiducia, avrebbero parlato in suo nome". Come aveva avvertito Rosa Luxemburg pur sostenendo l'Ottobre, il soffocamento della democrazia, che si suppone avrebbe dovuto difendere la rivoluzione contro i suoi avversari, si sarebbe rivolta contro essa, con l'affermarsi di una una logica "sostitutista" di coloro che parlano "in nome di..." [4]. Simili slittamenti verticisti si possono affermare anche nei “movimenti”, in reti o associazioni che criticano i “partiti”, ma dove di fatto i gruppi dirigenti impongono le loro norme e decisioni "in nome di ..."

Gli errori, i veri e i falsi dilemmi possono essere discussi collettivamente ed essere superati. La crisi jugoslava che si aprì alla fine degli anni Sessanta - che non possiamo trattare qui [5] - ha reso attuale una critica sull'allontanamento dall'autogestione, talvolta a causa del mercato e altre volte a causa del piano stabilito dal partito-stato. Oggi le proposte collettivamente in discussione cercano di conciliare la democrazia autogestionaria e i bisogni egualitari di una pianificazione che rispetti i diritti sociali e nazionali, attraverso l'elaborazione da parte degli stessi soggetti dell'autogestione degli orientamenti generali sulle priorità della pianificazione. Ad esempio, si afferma che "le Camere dell'autogestione" si costituiscano nei differenti livelli territoriali per assicurare l'implementazione dell'autogestione stessa, accanto alle "comunità autogestite di interessi" di utenti e produttori che gestiscano in forma comune le merci e servizi specifici (ospedali, trasporti, ecc) nei diversi livelli territoriali.
La cosa importante è definire i diritti dell'autogestione non solo a livello di unità produttiva, quanto soprattutto dello spazio territoriale nel quale si organizza il "lavoro associato" e della "appropriazione sociale" delle risorse che richiedono criteri di solidarietà. Il coordinamento e la centralizzazione non sarebbero di tipo statalista - cioè al di sopra dei soggetti dell'autogestione - ma sotto il loro controllo. Ed è in uno spazio di questo tipo che può svilupparsi un'"economia dei lavoratori", intesi come produttori e come consumatori, cittadine/i, donne e uomini di differenti nazioni liberamente associati – che si può determinare “il lavoro socialmente necessario” per soddisfare le necessità che si ritengono essenziali.
Dietro il dualismo di potere, nel 1917, viveva un dualismo di diritti – quelli legali dei possidenti e quelli, legittimi, difesi nelle lotte, con altri criteri impliciti di "efficacia". Lo stesso accade oggi in quella che possiamo chiamare "economia politica dei lavoratori" che si ritrova e si esprime in forma embrionale nel bisogno di diritti e di criteri sociali ed ecologici che non sono rispettati dai potenti. Un modo per rendere visibile questo dualismo dei diritti e dei criteri potenziali è la parola d'ordine e l'organizzazione pratica di un "controllo sociale" (come nel 1917 il "controllo operaio") sulle aziende che licenziano o chiudono e sui debiti pubblici nazionali e locali che sono il pretesto per sopprimere posti di lavoro o diritti.

E, come nel 1917, davanti alla crisi dei licenziamenti o alla fuga dei capitali, possono nascere lotte per la vita nella forma di autogestioni difensive o con l'esigenza delle nazionalizzazioni sotto il controllo sociale. Queste lotte saranno instabili e minacciate da un contesto mercantile capitalistico dominante e dovranno fronteggiare la guerra sociale che conosciamo. Per consolidarsi e trovare la loro coerenza, le embrionali alternative dovranno coordinarsi per guadagnare maggiore forza. Lottando su qualsiasi scala in cui il Capitale impone le sue regole. Difendendo altri diritti e criteri che mirano a proteggere l'ambiente. Mettendo in discussione tutte le relazioni che si realizzano nello sfruttamento e nell'oppressione.

Note:

[1]. Vedi in particolare la quarta parte del contributo su Inprecor, agosto-settembre 2017, numero 642-643 (in francese): OCTOBRE 1917-2017 D´un communisme décolonial à la démocratie des communs: Le « siècle soviétique» dans la tourmente de la « révolution permanente »

[2]. Vedere in particolare Marc Ferro, La revolution de 1917, edición Albin Michel, 1997 (in italiano “La rivoluzione del 1917”, Sansono ed. 1974) e Alexander Rabinovitch, Les bolcheviks prennent le pouvoir, la révolution de 2017 à Pétrograd, La Fabrique Éditions 2016 (2017. I bolscevichi al potere, Feltrinelli).

[3]. A parte Marc Ferro, vedi Maurice Brinton, Les Bolcheviks et le Contrôle ouvrier https://bataillesocialiste.files.wordpress.com/2017/07/brinton-les-bolch... . Brinton cita abbondantemente l'opuscolo sui Comitati di fabbrica scritto da Anna M. Pankratova, Fabzavkomy Rossii v borbe za sotsialisticheskuyu fabriku (I Comitati di fabbrica russi nella lotta per una fabbrica socialista), Mosca, 1923, parte del quele è stato pubblicato nel numero 4 (dicembre 1967) nella rivista francese Autogestion.

[4]. Propongo un contributo ad una completa revisione e alla necessaria attualizzazione del “secolo sovietico” e dei grandi dibattiti che ha suscitato nell'intervento D’un communisme décolonial à la démocratie des communs: Le «siècle soviétique» dans la tourmente de la « révolution permanente», in Inprecor n° 642-643 agosto-settembre 2017.

[5]. La repressione titina di qualsiasi movimento e critica autonome hanno impedito una forma autogestita di trattare questa crisi, malgrado la convocazione di un congresso degli autogestionari nel 1971 a Sarajevo. Un bilancio qui: https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2017/10/17/1948-2018-co...

*Fonte articolo: http://www.espacio-publico.com/debate-sobre-la-revolucion-de-1917#commen...
Traduzione di Piero Maestri