Nel suo pugno c'è la lotta contro la nocività: Lenny Bottai

Mon, 15/12/2014 - 19:50
di
Adriano Masci*

Prima di inziare il mio pezzo ci tenevo a sottolineare la casuale e suggestiva contingenza con quello, uscito qualche settimana fa, su Rukelie. Un articolo potente a cui rimando e che invito a leggere perché si deve pensare lo sport anche come qualcosa capace di intrecciare le lotte all’ingiustizia, nel passato e nel presente, sul ring e fuori.

La fisica enuncia che una catena cinetica è un sistema composto da segmenti rigidi uniti tramite giunzioni mobili definite snodi. Il metro a stecche, quello da muratore, è l’esempio più comprensivo e calzante che si possa fare per assimilare il concetto di catena cinetica. Il nostro organismo è composto da tante catene cinetiche, i segmenti sono rappresentati dalle ossa mentre le articolazioni rappresentano i giunti. I muscoli sono il “motore” della catena cinetica. Questa definizione di tipo ingegneristico, però, non è applicabile completamente nella fisiologia del movimento umano perché l’apparato muscolare (ma estenderei ad “umano”) non può essere paragonato ad un sistema meccanico rigido, è invece da considerare come flessibile e plastico.

Il concetto di “catena cinetica” è il primo accorgimento tecnico, fondante, del nostro istruttore di pugilato da quando ho messo piede nella palestra popolare bolognese del Tpo-combàt pour la liberté. Dopo la guardia e come si sferrano i pugni, la “catena cinetica” è la base della boxe: se il tronco non gira con la dovuta elasticità, la forza trasferita dalle gambe alle braccia rischia di vanificarsi in un nulla di fatto, i colpi arrivano lenti e strozzati, come una fionda caricata male, col laccio floscio perché poco in tiro e la munizione che ti cade moggia moggia sui piedi. Quindi c’è bisogno di precisione e coscienza; spinta delle gambe da trasferire alle braccia e attivazione della catena cinetica nella rotazione del busto per sferrare più colpi senza perdere l’energia inerziale, per schivare al doppio della velocità e muoversi sul ring facendo perno sui propri piedi. Perché il pugilato – nel dare e prendere pacche – è velocità, dinamismo, e non forza bruta. Io in quella palestra ci vado per divertirmi, tenermi in forma e apprendere qualcosa di nuovo, che non guasta mai. È una palestra di dilettantismo ma c’è anche chi fa sul serio, sicuramente chi fa ben più sul serio di me. E ovviamente c’è chi fa più sul serio del dilettantismo, o meglio chi fa con la stessa verve ma ad altri livelli, quelli del professionismo. Sbagliereste tuttavia ad immaginarvi in questo salto qualitativo un ambiente troppo diverso e dissimile, perché le palestre che contano sono anche e soprattutto quelle popolari, come quella in cui ha intrapreso la sua carriera da pugile Lenny Bottai.

Lenny nasce a Livorno e da quello che ho messo insieme, tra suggestioni e dati attendibili, l’identità livornese ce l’ha nel sangue: è rosso e non gli piacciono i fasci e a soli tredici anni ha già voglia di menare le mani, ma in senso agonistico, negli scontri leali insomma dove si combatte per sport. È un ragazzino però e senza il motorino può affacciarsi soltanto a una palestra vicino casa dove fanno kick-boxing. A lui va bene come inizio, ma un po’ perché il suo maestro insegna anche pugilato altrove – lui ne è subito incuriosito – e un po’ perché la sua propensione alle tecniche di pugno gli è subito nota, dopo aver conquistato il secondo posto ai campionati italiani di Full Contact si dà esclusivamente alla boxe. È il momento di mettersi in gioco su quella che sembra essere una sua inclinazione naturale, e Lenny non tarda a farsi sotto. Vince un bronzo ai campionati nazionali Novizi B ma poco più tardi – all’età di vent’anni – si busca una squalifica di sei mesi per aver contestato animosamente il verdetto di un arbitro. Brutta faccenda per Lenny che si trova fuori dai giochi per una nota disciplinare, ma del resto lui non è abituato a starsene zitto; è un pugile ma non un automa sferra-cazzotti, è un pugile ma riflette e ha la dialettica nel sangue.

Nel 2004 è inattivo da sei anni e pesa trenta kg in più del dovuto ma in cuor suo non ha mai smesso di pensare alla boxe. Ora sembrerà di romanzare una storia sulla falsa riga di Rocky, eppure non siamo in un tronfio set cinematografico di Hollywood, siamo invece a Livorno dove Lenny butta giù i kg in eccesso in soli sette mesi, vince il suo incontro di rientro e decide di fondare una scuola pugilistica: la Spes Fortitude, con l’intento di perpetrare la tradizione della scuola pugilistica toscana e di coinvolgere gente in un’esperienza collettiva di scambio e arricchimento attraverso lo sport. A questo punto ha di nuovo i pugni in pasta e nessuna intenzione di tirarsi indietro.

Dal 2005 al 2007 vince dieci incontri pur dovendo fare i conti con un’altra brutta parentesi, quella di un infortunio al polso che lo tiene fuori altri svariati mesi. Lenny non si ferma più e dal 2008 comincia a combattere senza caschetto sui ring del professionismo. Ho visto alcuni video dei suoi incontri per farmi un’idea di come combatte. Non sono certo un esperto della boxe e tutto quello che riporto sono mere impressioni di uno spettatore. Lenny si muove accorto sul quadrato, ha la guardia serrata e sembra sempre attendere il momento più propizio per colpire. Ma è soprattutto velocissimo nello schivare, si abbassa come una molla e viene su rapido con il montante per poi chiudere con il gancio sinistro, come durante l’incontro che gli è valso il titolo italiano.

Tiene l’avversario lontano con il jeb proteso in avanti, al limite dello sfinimento a pensarci, gli ruota intorno quasi a fargli capire che lui può stare ovunque e poi cerca il contatto quando quello è più disorientato. Parecchia tecnica quindi e parecchia consapevolezza.

A proposito di questo torniamo per un attimo al concetto cardine della “catena cinetica”. E pensiamola ora non come una nozione meramente tecnica ma come un movimento dinamico della psiche, del pensiero. In una recente intervista uscita su Contropiano.org si chiede a Lenny del suo impegno politico, della sua militanza in sintonia con quello che fa sul ring e in palestra. Lui risponde: «un pugile, un atleta, è anche uomo, quindi se si abbandona all’invito di pensare solo allo sport, ridicolizza la sua esistenza. È ovvio e deve essere chiaro, in palestra si fa lo sport. La militanza poi si fa dove si vuole e dove si ritiene più opportuno. I due aspetti non si debbono mai limitare. Ma si ricordi che l’atleta è un uomo, quindi la sua cultura incide […] quando sono in palestra, sul ring o all’angolo, sono pugile o allenatore. Quando faccio i corsi, sono formatore. Spero di essere giudicato bene o male per quello. Perché non so se mi infastidirebbe più essere disprezzato in questa funzione per le mie idee, oppure essere sopravvalutato o “mitizzato” per le stesse. Lo sport non è mezzo di propaganda, ma lo sportivo non è un ebete che deve non avere respiro ideologico».

Il proprio pensiero politico quindi non deve essere limitante ai fini dell’attività sportiva, ma non si può neanche censurare o rimuovere, esso c’è e in qualche modo incide sulle cose. E a me sembra che nel caso di Lenny incida a livello di consapevolezza. Sul ring se non sei accorto e fai lo sbrasone, se sei tutto impulso e niente cervello rischi di prendere tante botte. Nella lotta politica e nelle rivendicazioni sociali si può dire che più o meno accade lo stesso, dice Mario Tronti: «ribellarsi è giusto ma bisogna farlo bene, saperlo fare bene, imparare a saperlo fare bene, e questo è il compito di una vita». E sentite cosa risponde Lenny, sempre nella stessa intervista, interpellato riguardo la chiave e il martello tatuati sul suo petto: «anzitutto non sono una chiave ed un martello, ma un calibro ed un martello: è un simbolo sovietico e al di là del richiamo puramente storico simboleggia appunto che la forza necessita dell’accuratezza e della precisione».

Sembra avere le idee chiare questo pugile livornese, marmoree verrebbe da dire. Eppure ci sbaglieremmo perché il suo pensiero è tutt’altro dall’essere appiattito da dogmi imprescindibili. Ha un pensiero ben preciso, che porta avanti nella sua militanza, nel suo concetto di socialità, ma è anche un pensiero che non rifugge la complessità. Nell’intervista parla di accessibilità allo sport e di quanto essa sia fondamentale per sviluppare momenti di crescita e confronto collettivo, del mare di chiacchiere istituzionali a riguardo di contro alle esperienze pratiche delle palestre popolari di tutta Italia e dei luoghi occupati che le ospitano. Stuzzicato poi sulle personalità che più lo hanno ispirato accenna a Hugo Chavez e alle sue politiche in contrasto col capitalismo che impera oggi e, a proposito di complessità, tira in ballo la figura di Sonny Liston in opposizione al mitologico Alì: «al di la della bravura e forse falsità mediatica di Alì, Liston era il nero tra i due. È per questo ha subito razzismo due volte: la prima dal suo stato, la seconda dal suddetto, che non ha mai perso occasione di sottolineare che il “brutto orso” era il “nero cattivo”».

Ma avevamo lasciato Lenny al 2007, quando intraprende la carriera da professionista. È il caso di riprenderlo perché da quel momento di strada ne ha fatta, tanto che oggi si trova a poco meno di un mese dalla sfida che potrà valergli il titolo mondiale dei superwelter. Dal 2007 in poi, dicevamo, batte sul ring il ceco Gabris e poi il romeno Florin. Quindi, per intensificare l’attitudine a ring sempre più impegnativi, decide di combattere con più frequenza e si scontra con i connazionali Amato, Paolini e Margiotta, tre incontri difficili e molto tecnici, li vince tutti. Alle soglie del 2009 sono solo due anni che combatte nel professionismo ma ormai ha la stoffa per incontri di alto livello. Tra vittorie e ricadute – la sconfitta con il francese Hamilcaro per difendere il titolo Ibf conquistato contro l’estone Sergey Melis; la vittoria per k.o. contro il turco Ackabelen che gli vale il titolo del mediterraneo Wbc –, sempre sostenuto dalla sua Livorno che fa un baccano inverecondo quando Lenny è sul ring, arriviamo all’incontro dello scorso 28 marzo 2014, in cui batte il francese El Massoudi e festeggia il titolo intercontinentale Ibf dei superwelter. Ora, recentissima la conferma, la strada di Lenny prosegue oltreoceano perché gli è stata concessa la possibilità di disputare la semifinale per il titolo mondiale contro Jermall Charlo, un ventiquattrenne statunitense per niente mansueto che ha all’attivo diciannove vittorie consecutive di cui quindici per k.o. Questo a Lenny potrebbe far salire una certa fotta ma conoscendolo un po’ c’è da essere sicuri che rimarrà lucido e darà tutto per conquistare l’accesso alla finale contro il campione Kornelius “k9” Brundage, 41 anni. Un giovane scoppiettante e una vecchia guardia come lui (Lenny ora ne ha 37 di anni) davanti alla scalata per il titolo mondiale, per sapere una volta per tutte fin dove si può arrivare. Risale alla celebre pellicola di Fincher, Fight Club, la battuta “combatti per sapere chi sei”. Ma questa retorica un po’ forzata, che nel film forse il suo senso ce l’aveva, non vale molto per Lenny o almeno per quello che lui dice di pensare. L’atleta prima di tutto è un uomo, e chi è lo sa già. Lo sa da quando nasce e lo sa meglio se nasce in un quartiere popolare dove la strada e la sua casa spesso si confondono, o si alternano; lo sa abbastanza bene Lenny Bottai che prosegue la sua lotta dal basso con la “catena cinetica” in testa, quella che muove e tiene viva la coscienza, e quella con cui fa leva il busto per schivare i colpi e vibrare le risposte.

Ciapla te, coi pògn, la zoca d’un livornais.

*Adriano Masci è nato a Roma ma vive e studia lettere a Bologna, tira di pugilato al TPO e collabora per edizioni Alegre. Fonte articolo: http://crampisportivi.com/2014/12/13/nel-suo-pugno-ce-la-lotta-contro-la...