L'arte nell'era del fatalismo

Wed, 26/02/2014 - 19:55
di
Sam Gindin (Da jacobinmag.com

Se l'arte deve coinvolgere il mondo come una forza attiva, ha bisogno di essere ben radicata nella vita di tutti igiorni ed anche di andare oltre.
“Qual è la natura dell'arte in un periodo di estrema confusione ideologica da una parte e frustazione politica dall'altra?” Questa è la domanda che si poneva il critico d'arte John Berger dopo le sconfitte del 1968. Più o meno quarant'anni dopo, l'incapacità della sinistra di cogliere l’occasione costituita dal grande tracollo finanziario ha posto la domanda di Berger di nuovo in primo piano.

Il fatto che abbia posto questa domanda riguardo agli artisti, e non più in generale, si radica nella particolare preoccupazione di Berger riguardo la distinzione tra i nostri desideri e il mondo come attualmente è.
“Ogni arte,” ha provocatoriamente affermato, “è un tentativo di definire e rendere innaturale questa distinzione”.
Guardandosi indietro, Berger riconosceva ai Cubisti la comprensione e l'espressione fiduciosa delle potenzialità per mettere in crisi questa distinzione. In risposta a tutto il dolore che accompagnava lo sviluppo tecnologico, “la produzione di massa prometteva infine un mondo di abbondanza”. Per tutte le oppressioni, “l'imperialismo aveva iniziato il processo di unificazione globale”. Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale mostrò però i limiti dell'ottimismo artistico dei cubisti. Il problema, concludeva Berger, era che “i Cubisti immaginavano il mondo trasformato, ma non il processo di trasformazione.”

Questa è la domanda più impegnativa, il processo di raggiungimento effettivo di un altro mondo possibile, che ci porta oltre l'artista e sfida la sinistra intera a fare i conti con quello che può essere fatto nell’attuale periodo di disillusione diffusa.

Questa disillusione è ora essa stessa uno degli ostacoli principali al cambiamento sociale. La nostra epoca è definita da un fatalismo pervasivo, in particolare, ma non solo, nella classe lavoratrice.
L'insoddisfazione popolare vive a fianco della convinzione che nulla si possa fare. Il capitalismo è l'unico giocatore in campo. Questo fatalismo aiuta il neoliberismo a riprodursi: le sue radici materiali si annidano nell'intersezione tra la profonda affermazione del capitalismo nell'esistenza sociale e la limitata forza politica di chi gli si oppone.

Lo spettro del fatalismo

Il capitalismo una volta prometteva la sicurezza materiale, la diminuzione delle ineguaglianze, una democrazia reale e vite più ricche. Promesse del genere erano centrali per la sua legittimazione. Il “modello americano” aveva uno status speciale in tutto questo: benché le attitudini nel resto del mondo spesso riflettessero una relazione di amore/odio con gli USA, erano i metodi di produzione, i modelli di consumo e la cultura popolare americani che indicavano la direzione. In seguito alle rivolte degli anni '60 ci fu però un cambiamento storico. Conquiste presentate precedentemente come misura del progresso furono poi indicate dalle elite come barriere al raggiungimento del successo. Le pressioni crescevano per abbandonare le vecchie promesse.

Dunque, e questo è il paradosso scoraggiante del periodo fino sostanzialmente ai primi anni '80, il capovolgimento delle promesse capitaliste non provocò una crisi sostanziale della sua autorità e le pratiche neoliberiste che ci hanno portato alle crisi economiche più recenti non sono state di conseguenza evitate, bensì intensificate. Per di più, nonostante tutto il danno subito dallo status del modello americano quando l'austerità è stata imposta alla sua classe lavoratrice, molti paesi non hanno fatto altro che emulare ancor più da vicino l'orientamento degli USA. La Germania, considerata da molti il successore di Svezia e Giappone nel rappresentare un'alternativa alla variante americana del capitalismo, ora sembra più americana dell'America (in termini di attaccamento all'austerità fiscale in patria e per le sue richieste punitive nei confronti dei paesi vicini).

In un momento che avrebbe dovuto portare a discorsi più seri sull’alternativa al capitalismo, le stesse alternative si sono allontanate ulteriormente dalle riflessioni pubbliche.

Le deficienze del capitalismo sono vissute come fallimenti individuali e le frustrazioni personali prendono il posto delle critiche sociali. Questo non riguarda solo i cittadini “ordinari” ma anche gli intellettuali e gli attivisti che hanno troppo spesso creduto che le loro prospettive generali agissero come uno scudo protettivo contro una tale inquietudine.

Come abbiamo fatto ad arrivare a questa impasse? Come ha fatto il capitalismo a presentarsi alla classe lavoratrice non tanto come la migliore quanto come l'unica alternativa?

La sinistra ha, non per la prima volta, sminuito sia la capacità di contrasto del capitalismo che il forte impatto che aveva nelle speranze della popolazione.
Delle speranze concrete, in cui non solo speriamo ma che ci impegnamo anche a far vivere, è sempre intimamente correlate con ciò che riteniamo possibile. E il possibile è inquadrato non solo, e nemmeno in prima istanza, dagli apparati esplicitamente ideologici (i media, l'istruzione e la religione). Il possibile è dato dall'impatto quotidiano sulla coscienza della popolazione di un potere gestito unilateralmente, della disciplina dei mercati competitivi, della commercializzazione pervasiva, della dipendenza dal debito, della globalizzazione e della delusione della democrazia liberale.
Allo stesso modo, la continuazione del ruolo di guida dell'impero americano all'interno del capitalismo non è una questione di leadership morale dell'America, ma di capacità di realizzazione, radicamento ed espansione delle relazioni sociali capitaliste che lo stato americano e le sue istituzioni più in generale continuano ad avere.

Giungere alla comprensione del fatalismo, di conseguenza, implica parlare di come le esperienze vissute si sovrappongono a tendenze economiche chiave come il neoliberismo e la globalizzazione e come questo sia rinforzato dall'incapacità della sinistra di creare forze di opposizione.
Il fatalismo, va detto, non è un sinonimo di passività. L'ingiustizia, di certo, strappa espressioni di scontento. I lavoratori accumulano proteste e talvolta scioperano, le persone votano, ci sono manifestazioni. Ciò nonostante quello che caratterizza queste risposte come fataliste sono i loro limiti autoimposti nel mantenere le strutture sociali esistenti e le relazioni di potere della società in quanto date. E nell'immaginare un'alternativa senza credere che ci sia un modo di arrivarci. Il fatalismo è anche riflesso, come Leo Panitch ed io abbiamo affermato, della paura che deriva “da un'esperienza di duemila anni di propaganda della classe dominante e dalle conseguenze perverse dei tentativi di dar vita reale a visioni utopiche”.
La socialdemocrazia abbraccia tutti questi elementi di fatalismo. I suoi professionisti possono infatti essere impegnati e attivi nel perseguire riforme, ma finché tali riforme sono confinate nel capitalismo e nella sua logica, offrono solo un neoliberismo più morbido e gentile.

Nel contesto di un collasso mondiale che riguarda la vita delle persone, i limiti di tali riforme (specialmente di un partito politico che è apparentemente all'opposizione) rinforzano il fatalismo popolare. E la giustificazione che i socialdemocratici offrono per spiegare questi limiti (andare oltre è impossibile dati i vincoli del capitalismo) serve solo ad educare la loro base sociale al fatalismo.

Sembra che I movimenti sociali emergenti, che vengono da una nuova generazione e portano lo slogan “un altro mondo è possibile”, si pongano in diretto contrasto con gli orizzonti limitati della socialdemocrazia. Ma la loro teoria e pratica, sfortunatamente, è anche indebolita da un'accettazione più sottile del mondo così com'è. Lasciando da parte il nichilismo di alcuni, il fatto che gli attivisti rimangano molto in minoranza tra i giovani e che gli attivisti stessi spesso “se ne vadano” quando invecchiano e cambiano le loro condizioni di vita, la questione in gioco è il “fatalismo strategico”.

Nonostante la loro energia, passione e creatività tattica, gli sforzi dei giovani attivisti, dagli anni '90 fino a Occupy, sono sembrati (con alcune eccezioni degne di nota) essere sporadici, localisti e simbolici. C'è stato di conseguenza ben poco consolidamento degli spazi di resistenza ed allo stesso tempo uno sviluppo limitato delle capacità per un sostanziale impegno sociale. Il focus primario sulla protesta porta con sè l'inclinazione ad ignorare e talvolta addirittura deridere, senza considerare seriamente che cosa potrebbe sfidare in modo radicale il capitalismo ed infine sostituirlo. Incapaci di pensare in grande, queste proteste stanno diventando sempre più incapaci di vincere anche solo nel piccolo. Incapaci di agire più ambiziosamente, si limitano di solito a proteste difensive contro l'ultimo attacco specifico alle nostre vite.

Il teatro di Brecht sembra così appropriato ai nostri tempi perché sfida il pubblico a confrontarsi direttamente con la questione del fatalismo.

Il punto di partenza senza compromessi di Brecht è che, se accettiamo le strutture sociali del capitalismo, ci rimangono possibilità di scelta sicuramente limitate che danneggiano un modo significativo l’organizzazione. La sua tecnica, che contemporaneamente coinvolge e distanzia il pubblico, è volta a negarci la comodità di romanticizzare gli eventi o, d'altra parte, risolvere, con il teatro, i dilemmi posti.
Qualunque cosa invochino i sentimenti e le intuizioni alla Madre Coraggio essi rimangono all'interno dei parametri storici dell'azione, Brecht è interessato a incoraggiare i sentimenti e i pensieri che vanno oltre a ciò per trasformare questi stessi parametri. L'arte allora diventa un'arma contro il fatalismo.

Lavoro, arte e rivoluzione

La principale critica marxista al capitalismo si colloca sul terreno delle capacità umane. Il capitalismo è ingiusto e antidemocratico non per questa o quell'imperfezione in relazione alle concezioni ideali di eguaglianza e libertà. Noi rifiutiamo il capitalismo perché nella sua essenza implica il controllo di una parte sul tempo, la creatività e le potenzialità delle altre parti. E la ristrettezza della disciplina di mercato che il capitalismo impone come parte di questa corsa a un'accumulazione costante, ostacola la capacità umana di una liberazione sociale.

Questa critica al capitalismo dovrebbe entrare in risonanza con il lavoro degli artisti su numerosi fronti. Più ovviamente, il fatto di essere un artista esorta la solidarietà con i lavoratori derubati della loro potenziale creatività.
E come produttori,gli artisti hanno degli obblighi imposti da chi finanzia l'arte in una società ineguale, e di conseguenza su cosa è prodotto e per chi. Quando gli artisti provano a liberarsi di questo limite e usano la loro arte criticamente, il loro accesso a un pubblico è generalmente limitato.
Una società che riduce sempre più la maggior parte dei suoi membri a venditori precari di forza lavoro, prevedibilmente, non sviluppa in molti la capacità di apprezzare il linguaggio dell'arte.
Per tornare alla domanda di Berger, qual è il ruolo dell'arte radicale in un periodo del genere? Sarebbe un peccato se l'arte, prendendo il fatalismo come una realtà immutabile, si riducesse a consolarci nel nostro scoraggiamento. D'altra parte, sarebbe naïve aspettarsi troppo dall'arte.
Benché gli anni da quando Berger lanciò la sua sfida abbiano confermato che il mondo distruttivo del capitalismo sia una barriera fondamentale allo sviluppo umano, la stessa arte non può avere la meglio in questa situazione. L'arte può smuoverci a livello emotivo ed intellettuale, ma per quanto valore possa avere, non può trasformare da sola le relazioni di potere della società. Un cambiamento così radicale richiede lo sviluppo di istituzioni e pratiche politiche radicali. Ricercando questi strumenti, gli artisti devono uscire dagli studi e dai luoghi di lavoro per agire nel mondo come personalità direttamente politiche.
Il filosofo e storico belga Lieven De Cauter ha distinto la “buona politica”, che deve essere determinante nei suoi obiettivi e nelle sue pratiche, e la “buona arte”, che è per sua natura ambigua riguardo i suoi impegni morali e politici.
Per descrivere come “buono” un personaggio in un romanzo non bisogna necessariamente far riferimento alle sue qualità morali o a politiche, ma bisogna descrivere il successo dell'artista nel catturare la verità, trasmettere intuizioni, portarci in emozionanti territori inesplorati.

Questo sembra rilevante soprattutto in questo momento. Con la sinistra in un limbo, trovandoci in una fase prematura per quanto riguarda la costruzione di speranza, fiducia, capacità di andare oltre il capitalismo, la controparte al fatalismo non è la sicurezza, ma possibilità e sperimentazione, un terreno che sembra dare un peso speciale al contributo della “buona arte”. Il peso dell'arte nella politica è allo stesso modo rafforzato dal fatto che la comprensione spesso inizia emotivamente e solo dopo arriva ad interessarsi dei limiti strutturali imposti alle nostre vite.
Oggi un'arte per l'attivismo deve avere un programma ambizioso. Deve assimilare una critica all'impatto del capitalismo sulle possibilità umane. Deve sfidare le restrizioni capitaliste alle possibilità di chi intraprende e porta avanti una produzione artistica. E deve lavorare per allargare il pubblico di persone allenate nella abilità necessarie ad apprezzare l'arte.
Quando l'arte rifiuta di essere complice dello status quo e così apre spazi per andare oltre l'esistente, porta avanti il suo ruolo politico cruciale. Quest'arte rende visibile l'invisibile, esplicito l'implicito. Rivela che ciò che è individuale è collettivo mostrando o suggerendo speranze e frustrazioni comuni. Esplora, senza rifuggire dalle complessità, la relazione tra locale e internazionale, particolare e universale, statico e dinamico. Chiede tutto e si impegna in un'esplorazione costante.
Se l'arte deve coinvolgere il mondo come una forza attiva, ha bisogno di essere ben radicata nella vita di tutti i giorni e, come disse Brecht, di superarla. Un esempio significativo di ciò è stata la notevole esposizione “Liquid Assests”, che ha indagato “come la morale del denaro e del debito possa definire e deformare le relazioni interpersonali”. In alcuni casi l'arte dovrebbe essere direttamente funzionale ai progetti politici (poster politici, teatro agit-prop), ma l'enfasi sulla politica non implica necessariamente la subordinazione dell'arte alla politica.

Infatti, l'arte può contribuire al meglio del cambiamento sociale se agisce in modo autonomo a fianco della politica. Le sue ricerche devono condividere alcuni sentimenti con i suoi compagni politici, ma deve anche continuare ad essere pronta a interrogare e criticare la sinistra stessa.

Articolo tratto dal magazine Jacobin (jacobinmag.com) e tradotto dalla redazione di CommuniaNet