Marzotto e il dramma dell'amianto

Fri, 23/01/2015 - 18:25
di
Alessia Manzi

Il principale marchio italiano nella produzione del tessile balzato alle cronache per la nefanda sentenza sulla Marlane si scopre abbia altri scheletri in amianto nel proprio armadio.

Veneto, Lombardia, Campania, Calabria.
Zone dell'Italia distanti geograficamente e diverse tra loro per usi, costumi, tradizioni ma accomunate nella trama ingarbugliata di una storia raccontata tra aule di tribunali, ospedali e denunce da parte di chi ha subito, direttamente o indirettamente, le politiche padronali.
I protagonisti di questa tipica storia operaia iniziata durante i primi anni '50 sono i lavoratori e le lavoratrici delle fabbriche tessili di proprietà della Marzotto, ricca e potente famiglia nel settore dell'industria tessile.
Un grande marchio famoso, specie dopo la conclusione in primo grado del Processo Marlane, la fabbrica dei veleni di Praia a Mare (provincia di Cosenza); durato per lunghi venti anni tra rinvii e ricorsi, e alimentato dalla voglia di lottare e di avere giustizia per i 107 dipendenti deceduti per cancro. Anni di interrogatori, indagini, sopralluoghi alla ricerca di quei fusti tossici sepolti nell'area circostante il fabbricato. Mesi, giorni, settimane verso una verità necessaria per far luce sullo sfruttamento degli operai e del territorio.
A nulla sono servite le controperizie, l'inchiesta, le accuse del PM e il coraggio della difesa: la magistratura, chinata alla volontà del profitto, ha decretato che nella Marlane di Praia a Mare non è accaduto nulla. Mai. Nessun disastro ambientale. Nessun operaio ha sviluppato un carcinoma per gli agenti presenti in fabbrica.
La vicenda della fabbrica avvelenata sull'Alto Tirreno Cosentino, di cui a breve si saprà se ci sarà o meno un ricorso in appello, ha però riaperto altre ferite fino ad ora poco conosciute alla cronaca più diffusa.

Qualche chilometro un po' più su, proseguendo sempre sulla costa tirrenica, si arriva nel salernitano. Quì, dal 1959 al 1985, era presente la sede della “Marzotto Sud”. L'impianto dava lavoro a 1.200 operai: molti di loro, purtroppo, sono deceduti a causa del cancro provocato dall'amianto presente nei telai del reparto filatura. Gli ex addetti o i familiari delle vittime, quando hanno richiesto di rivedere i contributi per la pensione, ottengono il riconoscimento del rischio morbigeno qualificato, e solo l'INAIL accoglie 300 domande mentre ne vengono inoltrate altre 600 e 450 invece, sono le controversie instaurate davanti agli organi di giustizia preposti. Cento richiedenti hanno dovuto appellarsi alla Corte di Cassazione, promettendo di affidarsi alla Corte dei diritti umani di Strasburgo ove le loro richieste non siano accolte. E' quindi ancora in corso un contenzioso volto a far luce su cosa sia avvenuto tra le mura dello stabilimento salernitano e sul motivo di rigetto per la domanda di quel centinaio di richiedenti.

Risalendo lo Stivale si fa tappa a Manerbio, in provincia di Brescia. Sembra il copione di un'opera teatrale da portare in scena. Atto I: Amianto e disoccupazione. Peccato vedere come l'unico sipario calato su un palcoscenico silente sia quello della mancanza di lavoro e delle malattie, capaci di portare via troppe vite già vinte dalle pessime condizioni lavorative a cui sono state sottoposte per troppo tempo.
3.000 operai sono stati esposti a rischio amianto, sebbene negli ultimi anni di attività fino ad arrivare all'anno di chiusura, 2003, si contasse un quarto della manodopera attiva rispetto a trent'anni prima. I bassi costi della forza lavoro e i maggiori profitti possibili per il padrone, portano Marzotto ad abbassare le serrande dello stabilimento bresciano ed a trasferirsi all'Estero lasciando 270 lavoratori in mobilità. Disoccupati e con la minaccia dell'amianto come uno spettro nelle quotidiane preoccupazioni.
Continuando il tour nell'Impero del tessile marcato Marzotto si giunge in Veneto tra Valdagno, Piovene Rocchette e Schio.
Anche qui va in scena lo stesso drammatico spettacolo. Gli operai e le operaie lavorano senza alcuna protezione all'interno di un reparto di tessitura in cui gli impianti frenanti dei macchinari, realizzati con amianto rilasciano polveri, mai aspirate da macchinari insufficientemente potenti per ripulire l'ambiente. Tutto questo accadeva anche nel reparto di tessitura, in cui i dipendenti attivavano gli impianti ad aria compressa per evitare l'avaria dei macchinari, mentre le polveri si spargevano ancora di più nell'aria.
E' il 1986 quando muore il primo operaio caldaista dipendente della LANEROSSI dal 1967. Dolori intercostali, tosse, perdita di peso e poi la terribile diagnosi: neoplasia polmonare metastatizzata e ipertensione arteriosa che porterà l'uomo a decedere per un'insufficienza respiratoria.
Tanti altri suoi colleghi hanno riportato gli stessi sintomi attirando l'attenzione di Medicina Democratica e dell'AIEA (associazione italiana esposti amianto), gruppi che hanno presentato degli esposti alla Procura di Vicenza. Nel 2012 è avviata un'inchiesta per la presenza di amianto all'interno delle tre industrie e gli inquirenti acquisiscono dieci cartelle cliniche. Le imputazioni sono violazione del d. lgs sulla salute e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro per dieci indagati non appartenenti ai vertici dirigenziali.
Tra risarcimenti INPS e parziale bonifica dell'area a rischio si continua a far luce su cosa è accaduto all'intero delle fabbriche una volta appartenenti all'ENI, poi rilevate Marzotto ad inizio anni '80.

Eppure si sa, la storia riporta anche eventi di ribellione contro lo schiaffo del padrone.

Proprio il 14 aprile del 1969, a Valdagno, esplode una rivolta operaia contro Marzotto. Scioperare e portare avanti una vertenza sindacale risulta essere un'impresa impossibile. A seguito di uno sciopero selvaggio gli operai e le operaie dell'azienda tessile, quella mattina di metà gennaio, decidono di bloccare i cancelli dell'entrata. Dopo alcune ore trascorse in un clima teso, un brigadiere dei carabinieri aggredisce le donne con una catena provocando il lancio di uova da parte degli uomini. Partono le cariche e alcuni operai sono feriti mentre il reparto celere della polizia giunge da Padova per rincarare le manganellate e sparare lacrimogeni. La presenza di un dirigente della fabbrica non fa che scaldare ancora di più gli animi della protesta, così sfociata in una ribellione capace di coinvolgere l'intera cittadinanza quando i principali sindacati, dopo il rilascio di due operai arrestati, predono accordi con l'azienda per sciogliere la manifestazione, senza consultare i dipendenti. Tremila persone invadono le strade della cittadina. Sassaiole contro le forze dell'ordine; bombe a mano e lacrimogeni sulla folla.
“Saluteremo il signor padrone per il male che ci ha fatto, che ci ha sempre maltrattato fino all’ultimo momento.”
Bassi salari, sfruttamento dei lavoratori, controllo pressante e paga a cottimo sono le condizioni che la classe operaia li impiegata rifiuta, rivendicando quella libertà espressa nell'abbattimento della statua del conte Marzotto.

“Con quale mezzo riesce la borghesia a superare la crisi? Per un verso, distruggendo forzatamente una grande quantità di forze produttive; per un altro verso, conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente i mercati già esistenti.” (Marx)

Per l'ennesima volta si è costretti a narrare il triste pianto degli sfruttati e la risata dell'oppressore, il dipinto della storia dell'industria italiana. Una cattiva novella scritta per descrivere le mancanze di tutela per i lavoratori e le carenti condizioni lavorative legate alla presenza di inquinanti tossici, capaci di avvelenare le aree circostanti e la salute di chi, per anni, ha mandato avanti quelle stesse fabbriche poi andate via per far posto ad una vita precaria. Una storia sbagliata ove i sindacati e i forti interessi economici hanno preferito il profitto del capitalismo a scapito della vita dei lavoratori.
Ai tempi dello Sblocca Italia, dei reati ambientali a favore di chi inquina, della disoccupazione al 13% che permette ancora di piú il gioco del ricatto guidato dal padrone, diventa necessario pensare ad un reale riscatto per i territori contaminati e per gli operai e le operaie, in molti a pagare i gravi danni dello scellerato industriale di turno.