Le diverse strade dell’economia dei lavoratori

Sat, 13/04/2019 - 18:28
di
Andrés Ruggeri*

A Milano il terzo incontro euromediterraneo delle fabbriche recuperate, esperienze autogestite che vanno oltre le forme di economia sociale e cooperativa prefigurando un ordine non capitalista di organizzazione del lavoro e della produzione

Il terzo incontro euromediterraneo dell’economia dei lavoratori e delle lavoratrici, che riunisce fabbriche recuperate, sindacalisti, attivisti sociali e studiosi, si svolge dal 12 al 14 aprile nella fabbrica recuperata RiMaflow, a Trezzano sul Naviglio nei pressi di Milano. Dal 2007 ogni due anni si svolgono incontri mondiali, dal 2014 intervallati da incontri regionali (Centro e Nord America, Sud America e Europa). L’occupazione e il recupero di fabbriche e imprese, fenomeno iniziato in Argentina già negli anni Novanta, dopo la crisi economica iniziata nel 2008 è diventato pratica diffusa anche tra lavoratori e lavoratrici europei, con l’intento di preservare i propri posti di lavoro ma anche di creare una nuova economia liberata dallo sfruttamento e orientata verso la soddisfazione dei bisogni sociali ed ecologici. Di seguito pubblichiamo l’articolo di Andrés Ruggeri, principale studioso del fenomeno e ideatore e animatore di tutti gli incontri internazionali delle fabbriche recuperate, che inquadra le peculiarità di questa specifica forma di lavoro senza padroni.

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Quando si discute di strategie politiche, la discussione sui concetti è importante. Cooperativismo, economia sociale, economia solidale, economia popolare, autogestione, economia dei lavoratori… Sono tutti modi diversi di esprimere la stessa cosa?

L’idea generale, più o meno vaga, è che si tratti all’incirca dello stesso fenomeno, anche se ognuno di questi concetti cirscoscrive spazi socio-economici differenti e implica prospettive diverse. Alcuni di questi concetti sono concepiti come insiemi che includono altri insiemi; altri invece si sovrappongono o si differenziano tra di loro.

Nel caso del cooperativismo, per esempio, il termine può vantare un’identità e un’istituzionalità storicamente consolidata in oltre un secolo e mezzo di traiettoria organizzata a livello mondiale. L’autogestione invece è innanzitutto un’idea di pratica indipendente dalla forma giuridica o organizzativa particolare adottata di volta in volta nei processi concreti. A volte, l’autogestione è vista come un mero sottoinsieme di concetti più vasti, per esempio dell’economia solidale.

In Argentina ultimamente si discute delle differenze tra l’economia popolare e l’economia sociale, con la prima che comincia a sostituire la seconda anche in ambiti accademici dove prima imperava. Una grande organizzazione come la Confederazione dei lavoratori dell’economia popolare (Ctep) sta portando la questione all’ordine del giorno, e in qualche modo ci sta costringendo ad adottare questa nuova definizione sia a livello accademico sia a livello politico: addirittura il governo Macri preferisce questa denominazione a quella di “economia sociale”. Contrariamente a quanto accade in Brasile con il movimento dell’economia solidale, in Argentina le organizzazioni di base non hanno mai smesso di auto-definirsi nell’ambito dell’“economia sociale”. In realtà, nella pratica non si vedono grandi differenze tra le organizzazioni considerate “di economia sociale”, riunite attorno al Foro Hacia Otra Economía (il Forum dell’altra economia), e quelle incluse invece dalla Ctep nella definizione di “economia popolare”. Per questo è opportuno adottare un approccio sostanzialmente diverso per giudicare le differenze tra i due ambiti, giudicandole piuttosto in base all’appartenenza di classe.

Per la Ctep, l’economia popolare è composta da tutti quei lavoratori che non hanno un rapporto salariale formale; questo non significa necessariamente che siano forme alternative di organizzazione economica, come accade nel caso dell’“economia sociale”. Di fatto, nella concezione teorica adottata dalla Ctep l’appartenenza sociale (che potremmo definire con il termine di “esclusi” elaborato negli anni Novanta a indicare gli emarginati dal sistema economico) è più importante della conformazione produttiva, che può essere alternativa o meno. In pratica, mentre l’economia sociale si esprime in una moltitudine di microimprese, produzioni più o meno artigianali (individuali, familiari o collettive), in cooperative di lavoro, eventi fieristici o agricoltura a gestione familiare che non riescono a costituirsi in un movimento definito e organizzato, nonostante la sua eterogeneità politica e organizzativa la Ctep si muove invece come rappresentanza politica e sindacale di un intero settore sociale (non di un settore economico), che interroga, negozia o affronta lo Stato come un sindacato, appunto. Da questo punto di vista, l’identificazione concettuale tra economia sociale ed economia popolare, che a prima vista sembrava così evidente, non è più così chiara come solitamente viene presentata.

Su un altro piano, ben più delimitato in quanto soggetto a regolamentazioni specifiche, l’altro grande conglomerato di organizzazioni è costituito dalle cooperative, tanto organizzato che di solito viene definito direttamente “il settore”. Il Cnct in Argentina si presenta come un grande ombrello che accoglie la maggior parte delle cooperative di lavoro, anche se è vero che esistono numerose organizzazioni che, per vari motivi, ne restano fuori. A modo loro, pur avendo legami con il resto del cooperativismo ancora abbastanza deboli, queste organizzazioni si inseriscono in un contesto più ampio, con una storia e una portata istituzionale. Se però passiamo a esaminare nel dettaglio il tipo di cooperative che compongono “il settore”, troviamo che un’alta percentuale di esse dipende da programmi di politica pubblica e non solo riceve sussidi, ma addirittura lo Stato contribuisce o paga direttamente gli stipendi. Ciò rende queste organizzazioni altamente vulnerabili ai cambiamenti politici. Per molte di queste cooperative e per i loro membri, ciò che le definisce non è tanto l’elemento cooperativo, che a volte finisce addirittura per essere un dettaglio, ma il settore sociale e l’informalità del lavoro, avvicinandosi di più all’idea di “economia popolare” che a quella del cooperativismo operaio di stampo classico.

Un fenomeno qualitativamente diverso è quello delle imprese recuperate, che sono per lo più cooperative di lavoro, costituite dai lavoratori per dare continuità all’impresa in cui lavoravano come salariati. All’inizio la cooperativa si presenta come un atto strumentale, uno mezzo tra i tanti per trovare un’uscita dalla crisi e poter continuare a lavorare. Con il passare del tempo e con l’accrescersi dell’esperienza la situazione può evolvere (e generalmente accade) oppure restare congelata a questo stadio iniziale. Se spesso vengono incluse nelle definizioni di economia sociale e di economia popolare, e se spesso sono definite per i loro principi cooperativi o di autogestione, non sempre le imprese recuperate (anche se in seguito il funzionamento può essere simile) possono rientrare in queste definizioni che si riferiscono a organizzazioni costruite da zero e non per dare una continuità produttiva all’azienda di cui erano lavoratori dipendenti. Le fabbriche recuperate, infatti, a differenza della maggior parte delle forme socio-economiche di organizzazione sociale o lavorativa che abbiamo visto prima, lottano per rimanere all’interno dell’economia formale, sono una forma di resistenza che poi genera successivamente forme di economia autogestita.

L’economia dei lavoratori come resistenza e come alternativa

Cerchiamo ora di soffermarci concettualmente su un altro aspetto, senza voler smentire le definizioni date in precedenza. Consideriamo il concetto di economia dei lavoratori e delle lavoratrici come un’idea che muove dalla nozione di classe ma amplia la definizione classica di lavoratore come colui che è direttamente sottoposto a un rapporto di sfruttamento tra capitale e lavoro ed escluso dalla proprietà dei mezzi di produzione. Pensiamo a un’idea di lavoratore più ampia, che include chi lavorando produce il suo stesso salario, sia individualmente come lavoratore informale, sia collettivamente in cooperative o altre organizzazioni autogestite, rurali o urbane. In altre parole, in questa nuova definizione un lavoratore è colui che vive del proprio lavoro senza sfruttare il lavoro degli altri. Che si tratti di un dipendente formale, di un membro di una cooperativa, di un lavoratore informale o rurale, si tratta sempre di soggetti egualmente subordinati all’economia capitalista. Per contrapporci alla quale abbiamo bisogno di riconoscere sia concettualmente che praticamente la necessità di riunificare la classe, sempre più frammentata dal capitale.

L’economia dei lavoratori è, quindi, l’economia generata e sostenuta da tutti questi segmenti di lavoro. Essa è in contraddizione permanente con il capitale, anche quando la contraddizione non viene percepita direttamente a causa dell’assenza dei padroni nei luoghi di lavoro. Inoltre, l’economia dei lavoratori si presenta anche come un’idea propositiva, e non solo descrittiva, di forme non capitalistiche di organizzazione del lavoro o di segmenti di lavoratori momentaneamente o permanentemente espulsi dal rapporto di lavoro salariato. Se guardiamo questa economia a partire dalle pratiche messe in campo dagli stessi lavoratori per generare la propria sussistenza in modo collettivo, si vede in queste pratiche (e in alcuni avanzamenti teorici) se non necessariamente una proposta compiuta di organizzazione economica alternativa, almeno la prefigurazione di un ordine economico post-capitalista. Ma tutto ciò sembra astratto finché non si cominciano a segnare tutte queste esperienze sulla grande mappa dell’economia globale.

A questo punto è indispensabile adottare la distinzione proposta dallo studioso messicano Marco Gómez Solórzano tra vecchia e nuova classe operaia, in cui si intende per “nuova” classe operaia quella categoria di lavoratori soggetti a condizioni di lavoro precario e informale (o anche di schiavitù o lavoro servile) in questa fase di sviluppo del capitalismo transnazionale. Una fase in cui il capitale tende ad abbandonare per la sua attività produttiva l’unità territoriale delimitata dagli Stati centrali, usati finora dal capitale per dominare (con mezzi coloniali o neocoloniali) i paesi della periferia. Il capitale transazionale ora agisce su scala planetaria, in uno spazio che non riconosce confini e in cui il capitale opera con libertà di movimento, cercando di integrare nella sua catena del valore le migliori condizioni di accumulazione e, quindi, di sfruttamento della forza lavoro. A questo servono istituzioni sovranazionali come l’Organizzazione mondiale del commercio, i trattati transnazionali di libero scambio, le unioni regionali tra paesi che si presentano come integrazioni politiche, ma che in realtà non sono altro che strumenti di subordinazione degli stati nazionali in senso regressivo (come dimostra l’Unione Europea), nonché tutti gli altri organismi internazionali “classici” discendenti degli accordi di Bretton Woods.

Tuttavia, in tempi recenti l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti e l’avanzare di altre espressioni di rifiuto da destra di questo processo di transnazionalizzazione dell’economia mondiale sembrano aver messo in discussione il processo. Fenomeni come lo stop a trattati di libero scambio come il Ttip (Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti), come la crisi del Nafta (Accordo nordamericano per il libero scambio), il rifiuto xenofobo dei migranti (poveri) e l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea (con il conseguente indebolimento di quest’ultima) sembrano tutti convergere verso un’unica direzione. Tuttavia, quello che questi tentativi stanno tentando di frenare è soltanto la circolazione dei lavoratori, come risposta alla pressione sociale che il modello capitalistico transnazionale ha esercitato sulle economie centrali, ma non si mette mai in discussione la libera circolazione e l’espansione dei capitali. Paradossalmente o no, attualmente sono la destra e le frange finora perdenti delle classi dirigenti a cercare di capitalizzare il malcontento dei grandi settori sociali danneggiati dalla tendenza transnazionale del capitalismo.

La paura della “vecchia” classe operaia di perdere le conquiste sociali e i diritti ottenuti in un secolo di lotte a livello mondiale sta aprendo la strada al discorso xenofobo e “populista” (nel senso negativo del termine) di una destra che sembra avanzare in tutto il pianeta.

Ma non dobbiamo perdere di vista il fenomeno che ci riguarda. Perché il neoliberismo sta espellendo sempre più lavoratori dalla sicurezza e stabilità del mercato del lavoro formale, ingrossando le fila della precarietà e del lavoro informale e unificando i lavoratori espulsi dalla “vecchia” classe operaia con quelli appartenenti alla “nuova”. È in questo incontro che si genera l’autogestione, non solo come alternativa di organizzazione economica e sociale per i lavoratori informali e precari (cioè nel campo dell'”economia sociale” o “popolare”), ma anche nella resistenza a questa tendenza economica mondiale, condotta attraverso il recupero di aziende o la costruzione di nuove imprese basate sull’autogestione. Non per sopravvivere, ma per rifondare le proprie condizioni di vita. Questo è il luogo strategico dell’economia autogestita, un’economia dei e per i lavoratori e le lavoratrici.

*Andrés Ruggeri è antropologo presso la Facoltà di Filosofia e lettere dell’università di Buenos Aires. Promotore degli incontri internazionali dell'”Economia dei lavoratori e delle lavoratrici” è autore tra l’altro di Le fabbriche recuperate (Alegre, 2014). Questo articolo è uscito sulla rivista Autogestión. La traduzione è di Riccardo Antoniucci.

*Fonte articolo: https://jacobinitalia.it/le-diverse-strade-delleconomia-dei-lavoratori/